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Giambattista Vico: Opere
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I: Le Orazioni Inaugurali, Il de Italorum Sapiente, E le Polemiche
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Risposta al Giornale dei Letterati di Venezia (II)

Risposta al Giornale dei Letterati di Venezia (II)

239 ―

IV
Seconda risposta del Vico

Io mi reputo favorito molto ed egualmente onorato della replica, che le Signorie Vostre illustrissime nell’articolo decimo del tomo ottavo delGiornale de’ letterati d’Italia hanno scritto contro allaRisposta, che io mandai fuora in difesa della metafisica contenuta nel mio primo libroDe antiquissima Italorum sapientia ex linguae Latinae originibus eruenda. Imperciocché, avendo io questa indirizzato ad un dotto signore anonimo, per dimostrare che io voleva difender me, non giá dar briga a voi; ché, quantunque gli esempi di ciò sieno spessi e molti in Francia, in Olanda, in Germania, non volea io però esser il primo a darlo in Italia con voi, i quali tanto bene meritate delle lettere italiane, per dubbio non gli altri, seguendolo, attaccassero contese, se giammai si sentissero poco soddisfatti de’ vostri rapporti e giudizi; e perché non sapea di certo qual signore di voi avesse concepito l’estratto di quel mio libricciuolo, e, anche avendolo di certo saputo, per vostro e suo riguardo non l’avrei né men fatto, perché non è lecito di scovrire chi vuole star nascosto, e molto meno chi lo deve, per non ferire la libertá, che hassi a lasciar intiera ad un ordine di uomini che sostengono persona di storici veritieri e di giudici spassionati de’ letterati viventi: con tutto ciò, voi, per vostra bontá, non avete voluto, come per ragion potevate, che l’anonimo stesso privatamente confutasse la miaRisposta; ma tutta la vostra ragunanza, cioè a dire una universitá di letterati uomini, con la favella comune del vostro

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Giornale, avete favorito rispondere, e sí farmi degno in un certo modo (quando io non lo sono, né ho ardito, né poteva ardire pretenderlo) di starvi a petto e del pari.

Mi ha recato maraviglia però ciò che sul principio scrivete (p. 223): «che io mi sia aggravato ed offeso da chi distese l’estratto, e che troppo acerbamente mi sia doluto di alcune picciole cose, che da voi con tutta modestia mi vengono opposte». Tanto è lontano dal vero che io sia di cotal natura o feroce o delicata, non mi so dire, che, avendo io letto quell’articolo, mi sentii pungere invero da un qualche leggiero stimolo di passione: ma, perché l’amor proprio allora piú ci è nemico quando piú ci lusinga, non volli ascoltarla sola; ma, portatomi dal signor Matteo Egizio, che trascelsi tra tutti, perché piú di tutti il conosceva ben affetto alla vostra assemblea, il domandai, avendoglielo dato a considerare, che esso farebbe, se cosí fossesi scritto d’opera sua; ed egli, uomo altrimente di riposatissimi affetti, risposemi che stimerebbe esser lui posto in abbligazion di rendere ragione di ciò che avrebbe scritto. Onde io, non per dolore di aggravio o di torto alcuno, ma perché non mancassi all’obbligo mio, mi determinai al difendermi.

Dipoi la maniera da me usatavi, a chiunque avrá letta quellaRisposta, ogni altra cosa mostra fuorché acerbezza, perché fui sempre di sentimento che le cose appartenenti alle scienze trattar si debbano con sedatissima maniera di ragionare, ed appresso di me è grave argomento esser nulla o poco vere le cose, ove si sostengono con istizza e con rabbia, ed osservo tuttavia ne’ costumi che chi ha potenza non minaccia e chi ha ragione non ingiuria. Al piú al piú le filosofiche dispute, oltre a’ lavori della mente, non ammettono altro dell’animo, per ristorarsi di tempo in tempo del duro travaglio dell’intenzione, che certi piacevoli motti, i quali diano a dividere gli animi de’ ragionatori esser placidi e tranquilli, non perturbati e commossi; e, ove abbiamo a riprendere, vi entri a farlo la gravitá, con la quale possiamo pungere civilmente, non offendere da villani, accioché i filosofi, i quali contendono di cose che non soggiacciono all’appetito, si distinguano dal volgo, che difende le sue

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cose con la compassione e con l’ira. E ciò sia generalmente detto per la difesa del mio costume.

Ora passo alle cose. E mi sia lecito primieramente domandare vostra buona licenza, se io non sieguo l’ordine della replica vostra: prima, perché tener dietro con un cammino non mai interrotto alle scritture degli avversari, egli mi pare esser d’uomo pugnace, e che voglia piú tosto opprimere l’oppositore che rintracciare la veritá, alla quale non si tien dietro per ogni via, ma per quella assolutamente che permetton le cose; dipoi, perché voi medesimi me ne fate ragione, che non seguitaste l’ordine che io ho tenuto nellaRisposta.

Vedo la vostra replica in tutto contener quattro parti:

i. una riprensione del ripartimento da me fatto della vostra censura, in confermazione del vostro detto, che in quel mio libro si esponga «una idea di metafisica, non giá una metafisica giá compíta» (p. 226);

ii. l’opposizione delle cose che vi ho meditato (p. 226 sgg.);

iii. la confutazion delle origini che io adduco delle voci «verum» e «factum», «caussa» e «negocium», e di alquante altre (p. 232 sgg.);

iv. un desiderio della condotta, che vorreste avessi io tenuto nel rintracciare l’antica filosofia degli italiani (p. 161).

A me sembra dar cominciamento a rispondervi da quella parte che poneste in ultimo luogo, dalla condotta; dipoi difendermi la distribuzione che feci della vostra censura; quindi confermare l’origini delle voci; e finalmente stabilire le cose vi ho meditate: perché primo in questa impresa fu il consiglio della condotta, alla quale poi seguí l’opera, e l’origini debbon precedere, che mi diedero occasione di meditare le cose.

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i
Della condotta dell’opera.

Circa la condotta, di me onorevolissimamente dite cosí (pp. 237‐8):

Dipoi chiediamo alla benignitá di quell’erudito signore la facoltá di dir con modestia in questo proposito il nostro sentimento: cioè che, volendosi ricercare qual fosse la filosofia antichissima dell’Italia, e’ non era da rintracciarla tra l’origini e significati de’ latini vocaboli, la qual via è incertissima e suggetta a mille contese; ma egli era da procacciarsela in rivangando e dissotterrando, per quanto si può, i monumenti piú antichi della vecchia Etruria, onde i romani ricevettero le prime leggi spettanti sí al governo civile della sua repubblica, sí a’ riti sacri della sua religione. Ovvero almeno egli era da ricercare quali fossero i princípi di quella filosofia, cui dalla Ionia translatò Pittagora nell’Italia, e però fu detta «filosofia italica», la quale avendo messe le sue prime radici in quelle parti, dov’ora il signor di Vico fa con tanto di gloria spiccare la sua eloquenza e dottrina, in ispazio assai breve di tempo si dilatò per lo stesso Lazio ancora.

E per quello che dite delle cerimonie e delle leggi romane, io non niego esser cotesti nobilissimi desidèri; ma ad eguali e forse maggiori incertezze sarebbe stata l’una e l’altra opera soggetta. Imperciocché all’una avrebbe arrecato grandissime tenebre il secreto della religione, che sempre, per farla piú venerabile, fu tenuto in gran conto, avendosi ad iscoprire misteri, che per ciò lo sono perché sono difficili ad iscoprirsi. Onde giudico sarebbe stata l’istessa fatica che rintracciarla dalle antiche favole, poiché da’ poeti i fondatori delle repubbliche presero le deitá, e le proposero a temere e riverire a’ lor popoli. Ma ciascun sa quanto in cotal lavoro abbiano travagliato con infelice successo i mitologi.

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Il poco numero poi delle leggi regie, che ben poterono di Toscana passar in Roma, e ’l non sapere or noi di certo quali tra’ frammenti della legge delle dodici Tavole esse sieno, a distinzione di quelle che, portate di Grecia, ben dieci n’empirono, faceano non meno difficile e contrastata quest’altra impresa.

Ripeterla finalmente fin dalla Ionia e dalla pitagorica scuola, egli non era investigare la filosofia antichissima dell’Italia, ma una piú novella di Grecia. Perché io da quelle poche memorie che ci giunsero de’ suoi placiti, che son pochissime ed oscurissime, la ripeto, sí, da Pitagora, ma non la fo venire di Grecia, e la fo piú antica di quella di Grecia. Conciosiacosaché nel proemio di tutta l’opera (p. 126) arrecai forte conghiettura che in Italia fossero lettere molto piú antiche delle greche, a cagion che l’architettura toscana è la piú semplice dell’altre quattro restanti greche; e l’invenzioni tutte sui lor principi sono semplicissime, poi tratto tratto vanno adornandosi e componendo. Onde porto ferma opinione che, quando nell’Egitto fioriva quel grandissimo imperio, che si distendeva per quasi tutto l’Oriente e per l’Africa, del quale, se non fusse venuto in talento a Germanico2 di andare a vedere le antichitá di quel paese, e tra esse le sue antichissime colonne, dove in sacri caratteri n’erano le magnifiche memorie scolpite, oggi noi non avressimo notizia alcuna. Il perché, verisimile, anzi necessaria cosa, egli è che gli egizi, signoreggiando tutto il mare interno, facilmente per le sue riviere avessero dedotto colonie, e cosí portato in Toscana la loro filosofia. E quivi essendo poi sorto un regno ben grande, e che diede il nome a tutto questo tratto di mar nostro, che bagna di Toscana fino a Reggio l’Italia, forza è che anche fussevisi diffusa la lingua, e di questa ne avessero piú preso i popoli, piú vicini, del Lazio. A questo aggiungesi quel che è certissimo, che la scienza augurale di Toscana vennesi in Roma; e tanto esser favoloso che Numa fosse ito a scuola di Pitagora, quanto egli è vero che fu il fondatore della religione romana.

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Per tutto ciò, venendomi per dinanzi un gran numero di latini parlari pieni di profonda sapienza, e non avendo essi, per quel che si è ragionato, per loro autori i greci, stimai essermi aperta una nuova e sicura via di rintracciare, addentrandomi nelle loro origini, l’antichissima sapienza d’Italia. Alla quale impresa mi stimolò l’esempio di Platone, che per l’istessa via nelCratilo tentò investigare l’antica sapienza de’ greci, e l’autoritá di Marco Varrone, che, quantunque nella greca versatissimo, e di tanta letteratura, che meritò l’elogio «doctissimus et Romanorum doctissimus», nelle sueOrigini della latina favella si studia dare alle voci qualunque altra, fuori che greca, come, per cagion d’esempio, piú tosto vuol si dica «pater» da «patefaciendo semine» che da πατήρ.

Ora, per tutto il ragionato, ardisco asseverantemente dire che Pitagora non avesse da Ionia portato in Italia la sua dottrina; perché cotal fu costume de’ sofisti, i quali, per far guadagno della lor arte, andavano vendendo per fuora il lor vano ed ostentato sapere; la qual cosa dá l’occasione e ’l decoro al dialogo di Platone intitolatoIl Protagora. Ma i filosofi uscivano fuori delle lor patrie e si portavano in lontani paesi, menati dal desiderio d’acquistar nuove conoscenze. E cosí, come dicesi di Platone in Egitto, Pitagora in Italia a cotal fine portatosi, qui avendo apparato l’italiana filosofia e riuscitovi dottissimo, li fosse piaciuto fermarsi nella Magna Grecia, in Cotrone, ed ivi fondar la sua scuola. E di questo sentimento io sono stato, quando nel proemio (p. 126) dissi: «Ab Ionibus autem bonam et magnam linguae partem ad Latinos importatam ethymologica testatum faciunt»; cioè che poteano servire a rintracciare l’antichissima sapienza d’Italia le origini greche repetite dagli abitatori del mar Ionio, tra’ quali fiorí l’italiana setta: talché, se vi ha voce latina di sapiente significazione che abbia indi l’origine, ella s’abbia a stimare essere stata quella molto innanzi portata da Toscana in Magna Grecia e, prima che in Magna Grecia, nel Lazio.

Cosí, con la condotta delle origini do lume al dogma pitagorico, che ’l mondo consti di numeri, tanto finora oscuro, che

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or non truova seguaci; e dal dogma pitagorico spiego l’opinione degli antichissimi filosofi d’Italia d’intorno ai punti, i quali poi in Zenone ci furono da Aristotile grandissimamente alterati. I latini confusero «punto» e «momento», e per l’una e per l’altra voce intesero una stessa cosa, e cosa indivisibile; per «momento», propriamente, s’intende «cosa che muove». Pitagora disse le cose costar di numeri; i numeri si risolvono ultimamente nell’unitá; ma l’uno e ’l punto sono indivisibili, e pure fanno il diviso; quello il numero, questo la linea, e tutto ciò nel mondo degli astratti. Dunque nel mondo vero e reale vi ha un che indivisibile, che produca tutte le cose che ci dánno apparenze divise. Perché per l’istessa via avea io investigato i nostri antichissimi filosofi aver nelle lor massime che l’uomo talmente opera nel mondo dell’astrazioni, quale opera Iddio nel mondo delle realitadi. E cosí il modo piú proprio di concepire la generazion delle cose s’apprenda dalla geometria e dall’aritmetica, che non in altro differiscono che nella spezie della quantitá che trattano: del rimanente sono una cosa istessa; talché i matematici, conforme vien loro in talento o piú in acconcio, dimostrano una stessa veritá or per linee, or per numeri.

Ma piú che difficile e contrastata, come voi, altri può stimar questa via inverisimile, perché i romani tardi cominciarono a gustare le lettere, e questa saggia lingua, che io immagino, doveagli da prima farli dottissimi.

Providdi cotesta obiezion nel proemio (p. 126), ove dissi, per cotal ragione appunto, che i romani «eas [locutiones] ab alia docta natione accepisse et imprudentes usos». Perché tutte quelle, che stimansi comunemente fortune de’ romani, io riduco a questa sapienza, ch’essi seppero far buon uso de’ frutti della dottrina delle altrui repubbliche, e mantenere l’ignoranza, e per mezzo di questa conservar la ferocia tra’ suoi; ne’ quali tempi assolutamente essi si stebilirono l’imperio del mondo, con la distruzion di Cartagine. Presero da’ toscani la religione quanto mai tragica, per dirla con Polibio, imaginar si potesse, e, quel che piú fa al nostro proposito, un’arte di schierar

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battaglia, sola al mondo, per la quale un autor sapientissimo di sí fatta arte stima essere stati invincibili, la quale non potea essere se non frutto delle matematiche de’ toscani; presero le leggi dagli spartani e dagli ateniesi (due popoli i piú chiari del mondo, uno per dottrina, l’altro per virtú): poi spensero affatto l’imperio e ’l nome toscano, e per trecento anni dopo le leggi non ebber commercio co’ greci, stimando esser bastevoli da sé a mantenere i buoni ordini, la religione e le leggi con inviolabilmente osservarle; onde provenne quella somma loro scrupolositá delle formole. E cosí i romani parlarono lingua di filosofi senza esser filosofi.

Cosí l’origini, che io vo investigando, non sono giá quelle de’ grammatici, come gli altri ad altro proposito finora han fatto, che considerano le derivazioni delle voci; e l’etimologie, che essi in gran parte traggono dalla greca lingua de’ popoli abitatori delle riviere del mar Ionio, mi servono sol d’argomento che l’antica favella etrusca fosse sparsa tra tutti i popoli dell’Italia ed anche nella Magna Grecia: non mi servono per altr’uso. Ma mi sono dato a contemplare le ragioni come i concetti de’ sapienti uomini si ascurassero e si perdessero di vista, divolgandosi ed impropriandosi dal volgo i loro dotti parlari.

Questo è l’arcano, con che ho stimato poter iscoprire qual fosse il sapere degli antichissimi filosofi italiani. E cosí, stando, per cagion d’esempio, sulle medesime vostre opposizioni (p. 234) «caussa», in significazion propria de’ filosofi, significa «cosa che fa». I romani significarono con questa voce ciò che «negozio» anche s’appella. Mi pongo in ricerca come egli poté avvenire che la voce, la qual significa «ciò che fa», passasse a significar «ciò che è fatto». Rifletto altresí ciò che nasce dalla causa appellarsi da’ latini «effectus», e l’effetto in sua elegante significazione dinota «fatto perfettamente». Non truovo come queste cose abbiano tra loro rapporto alcuno; e pure son certo che le voci non sieno poste a caso. Dunque hassi a dire necessariamente che vi fosse stata opinione di que’ primi sapienti, che diedero i nomi alle cose, che «causa» fosse

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ciò che contenesse dentro di sé l’effetto, e con esso fosse una cosa istessa, e ’l producesse con tutta perfezione; la quale cosa è assolutamente propria di Dio. Cosí «genus» appo filosofi dicesi «ciò che nella specie dividesi», e appo volgari significa la «guisa» o «maniera». All’incontro «species» volgarmente dinota «apparenza», filosoficamente «parte del genere» o «individuo». Considero sotto voci istesse diversissime cose: qualche ragione d’attacco ha dovuto frapporvisi: non altrove il rinvengo che avessero i sapienti autori della lingua opinato darsi l’uno vero, che dividesi in piú apparenti unitá, talché queste fossero apparenze e simulacri di quello; e l’uno sia la maniera, i piú sieno lavori sulla maniera; quello vero come originale, questi falsi come ritratti.

Ma, con tutto ciò, non resterá pure maravigliarsi alcuno come a niun de’ romani, nati e dotti in quella lingua, sia giammai venuto in pensiero per sí fatta via rintracciarne l’origini. Io rispondo a costui: a niuno de’ medesimi cadde in mente d’investigar da filosofo le cagioni de’ lor costumi ed usanze. Dunque falso è ciò che ne scrisse un filosofo straniero, Plutarco? Sciogliamo dunque la maraviglia. Fu spento il regno etrusco molte e molte centinaia d’anni innanzi che i romani coltivassero lettere; la lingua latina, dominante a’ tempi de’ dotti, avea oscurate le altre minori d’Italia; il fasto della romana grandezza sdegnava anche le delicatezze dell’Attica, come abbiamo veduto in Varrone; la loro felicitá gli lusingava, come suol fare, che tutti i beni, che essi godevano, fussero propri e nativi. Dunque non è stravagante, ma necessaria cosa che non riflettessero a quello che ho io riflettuto.

Or mettete insieme, di grazia, da una parte i piú antichi sapienti del mondo gentile essere stati gli egizi; il loro imperio in colonie per le riviere del Mediterraneo diffuso; il potente regno de’ toscani in Italia, e le lingue diffondersi con gl’imperii; l’architettura toscana piú antica delle greche; la religione piú tragica, e l’arte militare piú sapiente, di lá venuta a’ romani; sempre essere stati tenuti sapienti gli autori di lingue sagge; e un gran numero di voci latine non mostrare niuna ragione

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de’ loro progressi, ma, se si ripetono dalle origini che io ragiono, averle piene di profonda sapienza: dall’altra parte ponete l’arcano della religione, che non fa di leggieri scovrirsi; il poco numero e l’incertezza delle leggi regie, i pochi ed oscurissimi dogmi di Pittagora: e giudicate qual delle due sia piú consigliatacondotta.
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ii

Della divisione con la quale nellaPrima risposta si partí la censura che ilGiornale, nel tomov, articolovi, aveva dato della nostra metafisica.

Riprendete la divisione, che io nella mia antecedenteRisposta feci della vostra censura, e dite non altrimente esser tre le opposizioni quivi da voi fatte contra la mia metafisica, ma sol una, e propriamente quella che io fo seconda: cioè che io abbia dato piú tosto un’idea di metafisica che una metafisica perfetta (p. 224), e che la terza e la prima sieno ragioni della seconda, e non parti, che con la seconda facciano un intiero di quel giudizio. E, per piú chiaramente provare una sí fatta proposizione, v’aggiugnete le seguenti ragioni:

1. perché noi v’osserviamo cose non poche troppe brevemente accennate, le quali e’ converria trattare alquanto piú diffusamente;

2. perché vi sono cose alquanto oscure, che vorrebbon piú chiaramente esporsi;

3. perché sembra esservi cose puramente proposte, che, per altro, essendo o mal note a’ suoi leggitori o disputate intra’ filosofi, sembran richiedere qualche sorta di prova;

4. (il che però noi protestiamo non essere una ragione distinta da quella che s’è addotta in terzo luogo, ma una come appendice della medesima) perché non a tutti è noto che gli accennati latini vocaboli, principal e unico fondamento della metafisica del signor di Vico, abbiano quel significato che loro attribuisce.

Primieramente, potrei scusare la cortezza della mia mente, che, quando io era tutto ad altro inteso, avessi, contra le regole della buona divisione, fatto entrare il tutto, che si divide, nelle parti che lo dividono; potrei scusar, dico, questa mia cortezza di mente con la vostra comprensione: e pure voi, nel tempo istesso che di ciò mi riprenderete, fate il ripartimento delle cose, che voi prima nella censura diceste «bisognose di pruova», in

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«brievi», in «oscure» e «proposte semplicemente e non pruovate», che è tanto dire quanto «bisognose di pruova», sotto le quali comprendete le disputate ancor tra’ filosofi, e, oltre a queste, l’origini.

Ma io ingenuamente confesso che dopo la vostraReplica, nella quale siete discesi a’ particolari, e, come giudico, a tutti quelli che giudicavate proporzionati ad oppormi, confesso, dico, che la mia divisione è viziosa. Ma innanzi, perché le vostre opposizioni erano generali, io non poteva indovinare che quella voce «idea» volesse significare abbozzo mancante di ultima mano nelle origini delle voci e nelle pruove delle cose propostevi; e non piú tosto, perché in quel libro non si fussero trattate tutte le quistioni che si sogliono trattare in metafisica (come invero non vi sono trattate, ma le sole principali, onde l’altre son corollari che si lasciano raccôrre a’ dotti di queste cose), entrasse in ciò la contesa: quali cose debbano essere in metafisica principalmente trattate. Onde parvemi cosí ben partitamente parlare, come un che dicesse: — Questa fabbrica manca nelle fondamenta, e, perché non vi sono alzate tutte le parti che la compiscono, sembra piú tosto una pianta o disegno che un edificio compíto, ed in molte delle parti giá alzate manca de’ finimenti. —

Per tal cagione adunque divisi, come ho fatto, quellaRisposta; e in secondo luogo mi diedi a delineare un’idea di una metafisica, nelle sue parti principali e necessarie compíta, sulla quale fusse lavorata la nostra. Ma, poiché ora voi avete determinato la vaghezza di quella voce «idea», io volentieri con voi convengo del vizio della nostra divisione.

Però, a cotesta vostra spiegazione, io sono posto in obbligo rendervi ragione della «brevitá», dell’«oscuritá» e delle «cose che qui solamente s’accennano e sono ancora tra’ filosofi contrastate».

D’intorno alla brevitá, dico ch’ella qui, anzi che vizio, è virtú. Imperocché qui non si tratta fisica, nella quale bisogna una copiosa ed esatta istoria delle cose naturali, un grande apparecchio di meccanica, e vi si dee andare con la ragione

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tentando mille sperienze: non si tratta geometria, dove bisogna una copia di nomi diffiniti, di massime incontrastate, di postulati discreti, e camminarvi dritto e senza salti per istretta e lunga via di dimostrazioni. Si trattametafisica, nella quale l’uomo ha da conoscere e spiegare la sua mente, purissima e semplicissima cosa. Talché a questo proposito cade molto in acconcio quello che si osserva tuttodí, far molto piú profitto nelle cose dello spirito cristiano le meditazioni che brievemente propongono pochi punti, per li quali l’uomo entri in se stesso a purgarsi l’anima, che le prediche piú eloquenti e piú spiegate di facondissimi predicatori. Per lo che parmi che Renato sapientementeMeditazioni avesse questi studi intitolato, ove le principali cose tratta con tanta brevitá, che la sua metafisica si chiude entro poche pagine; e pure egli, come ora voi opponete a me, scrisse «con nuovi princípi e nuovo metodo cose la maggior parte non piú udite». Onde il consiglio di Quintiliano non sembra fare a vostro pro, «che piú conduca talora il dir soverchio con tedio che tacere con pericolo il necessario»: perché ragiona ivi di narrazione de’ fatti a’ giudici, che sono ignoranti de’ fatti; ma, ove si è proposto ragionare con intendenti, hassi a osservare quello: «sapienti verbum sat est».

Dall’«oscuritá», poiché nasce dal non diffinire i nomi, io me ne purgherò dove me l’opporrete.

Le «cose», finalmente, «che qui semplicemente s’accennano e sono ancor tra’ filosofi contrastate», da me si lasciano ad esso loro a determinarsi: perché mio proposito fu mandar fuori un libricciuolo tutto pieno di cose proprie, e sarei ben contento di aver pruovato le mie.

Siane di ciò un esempio. L’«ingegno» da’ latini fu ancor detto «memoria»: n’è bello il luogo nell’Andriana3, ove Davo, che vuol concertare con Miside una gran furberia, le dice:

   Mysis, nunc opus est tua
mihi ad hanc rem exprompta memoria atque astutia
>.

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Quello, che noi diciamo «immaginare», «immaginazione», pur da’ latini dicevasi «memorare» e «memoria»; onde «comminisci» e «commentum» significano «ritrovare» e «ritrovato» o «invenzione», per quello, pur degno da notarsi, altro luogo nell’Andriana4, dove Carino, querelandosi della creduta malignitá e perfidia di Panfilo, dice:

Hoccin’est credibile, aut memorabile,
tanta vecordia innata cuiquam ut siet,
ut malis gaudeant
>, ecc.

E pure l’ingegno è il ritrovatore di cose nuove, e la fantasia o la forza d’immaginare è la madre delle poetiche invenzioni: lo che non avvertendo i grammatici, dicono molte cose poco vere d’intorno alla Memoria, dea de’ poeti, alla quale essi ricorrono ne’ loro maggiori bisogni, e, con l’implorare l’aiuto di quella, dánno ad intendere al volgo succedute le cose che narrano; ma in veritá essi l’implorano per ritrovar cose nuove.

Ciò bastami per ritrarre che queste voci furono usate in cotal saggio sentimento dagli antichi filosofi italiani: ch’essi opinassero noi non aver cognizione alcuna, che non ci venga da Dio. Che poi ciò si faccia per via de’ sensi, come volle Aristotile ed Epicuro; o che l’imparare non sia altro che ricordarsi, come piacque falsamente a Socrate od a Platone; o che l’idee in noi sieno innate o congenerate, come medita Renato; o che Iddio tuttavia le ci crei, come la discorre Malebrance, nel quale volentieri inclinerei: lo lascio irresoluto, perché non volli trattare in quel libricciuolo cose di altrui.

253 ―

iii
Delle origini.

Circa le origini delle voci, in cotestaReplica (p. 232 sgg.) mostrate non esser soddisfatti de’ luoghi ond’io confermo le prime due pari, e dubbitate di alcune altre seguenti. E primieramente (p. 233) non vi appaga il luogo di Plauto, dove «factum optume» spiego «adprime verum»; e replicate che a quella ingiuria «Furcifer», che gli dice Callidoro, Ballione risponda, «factum optume», cioè «fu fatto benissimo», per «fatto con somma ragione».

Ma dubito fortemente che la buon’aria del parlar latino non permetta sí fatta spiegazione, a cagion che un tal sentimento si suole spiegare con la frase «iure factum», non «bene factum»; poiché noi vediamo usarsi la frase «bene factum» ogni qualunque volta ci vien narrato avvenimento di cosa desiderata. Onde in infiniti luoghi de’ due comici, all’udire liete novelle, sentiamo rispondere da chi se ne rallegra o congratula, «bene factum», «bene, inquam, factum», «bene, ita me dii ament, factum»; che si renderebbe in italiano «io ne ho un gran gusto». Onde, al piú al piú, quel luogo si dovrebbe per cotesto verso spiegar cosí: che all’ingiuria, la quale gli dice Callidoro di «portaforche», Ballione risponda: «Oh che grandissimo gusto che mi hai tu dato!».

Talché, seguendo cotal interpretazione, sembra nulla conferire al vostro pro quell’altra, che gli date: «egli è verissimo ciò essere ottimamente fatto», e tutto ciò che in confermazione ne adducete dell’aristotelico di buon gusto Onorato Fabri. Perché tutto ciò avrebbe luogo, se Ballione avesse risposto «iure factum», e, per la serie delle prime risposte, tutte dinotando veritá, «ita est», «vera dicis», «quippini?», quest’ultima si enuncerebbe: «egli è vero ciò esser verissimo»; della quale enunciazione non si può immaginare né piú inutile né piú vana.

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Della voce «caussa» opponete (p. 234) che dovrebbe significare «negozio», non come dall’oratore e dal legista si considera, ma come dal metafisico, in sentimento della «cagione», ed in ispecie dell’«efficiente»; talché, come in Cicerone si legge: «in seminibus caussa est arborum et stirpium», e appo Virgilio:

Felix qui potuit rerum cognoscere causas!

si avesse potuto latinamente sostituire la voce «negocium».

Della medesima maniera vorreste che io avessi addotto luoghi, dove la voce «genus» significasse «forma», quale i fisici intendono, e la voce «species» significasse quello che da’ filosofi «individuo» s’appella.

All’una e all’altra di coteste opposizioni credo giá essersi soddisfatto dove ragionammo della «condotta», perché in cotal guisa, nella quale voi richiedete da me le pruove delle origini, io avrei ritratto l’antica sapienza d’Italia da esse voci latine, non dalle origini loro: che è il mio argomento.

Quel che di piú mi opponete, che la parola «anima» in sentimento di «aria» egli venga dal greco, appo i quali l’aria mossa fu detta ἂνεμος, onde io malamente ne faccia autori i filosofi italiani, egli pure, per tutto il ragionato della «condotta», sta risoluto. Perché dalle pruove ivi fatte facilmente si può dedurre che quegli egizi antichissimi, che mandarono in Italia cotal voce in cotal sentimento, l’avessero parimente mandata in Grecia; e cosí essersene tutte e due queste nazioni servite, senza averne alcun commercio tra esso loro.

Ma è bisogno che io vi nieghi quell’altro poi: che Lucrezio da’ giardini di Epicuro trasportò nel Lazio la distinzione delle voci «animus» ed «anima», con quelle loro eleganze, che «anima vivamus», «animo sentiamus»; al qual proposito adducete i suoi leggiadrissimi versi, e ne inferite che sia dottrina forestiera, non nativa d’Italia (p. 236 sgg.).

Io pur lo dissi (cap.v, §i, p. 167), ragionando dell’eleganze di queste due voci: «Elegantia duûm horum verborum ‘animus’ et ‘anima’, quod ‘anima vivamus’, ‘animo sentiamus’, tam scita est, ut T. Lucretius eam veluti in Epicuri hortulo natam

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vindicet suam». Ma la voce «veluti» importa improprietá: né invero Lucrezio potea di Grecia ripeterla, perché essi con la voce istessa ψυχή significano e l’uno e l’altro; e, quando essi ragionano d’immortalitá, che da’ latini dicesi «animorum», non «animarum», essi usano la medesima. Sicché ilFedone, doveex professo si trattade immortalitate animorum, è intitolato Περὶ/ ψυχῆϛ. Oltreché, Lucrezio trovò questa eleganza di voci in filosofici sentimentiab antiquo correre per le bocche romane, molto innanzi ch’esso vi portasse l’epicurea filosofia.

Sol mi rimane intorno a’ versi di Lucrezio soggiungere che quel torno gagliardo, con cui ritondate quel sentimento: «Ma a chi non è noto che sovente i vocaboli ‘sentio’ e ‘sensus’ appo i latini hanno il significato medesimo che ‘intelligo’ ed ‘intellectio’, ‘iudico’ e ‘iudicium’?», potevate appianarlo con riconvenirmi che io medesimo anche nel margine del paragrafoDe sensu (p. 177) dissi: «Latinis omnia mentis opera sensus»; e ne vado investigando le cagioni.

Ma, ritornando alle origini, quella però che «intelligere» in significazione di «raccoglier tutto» e di «apertamente conoscere» è combattuta da voi (p. 235) con l’autoritá de’ gramatici, né pur, seguendo la loro etimologia, sembra essere stata abbattuta. Imperoché la parola «intelligere» non viene da «intus legere», che sarebbe «internamente raccogliere», onde voi ne inferite per assurdo che sarebbe l’«intelligenza propria dell’uomo, non giá di Dio»; ma viene da «interlego», fatto piú dolce «intellego», presa la preposizione «inter», non in sentimento di frammezzamento, sí che significasse «trascegliere tra le molte le migliori cose», cioè a dire le vere, ma in significazione di accrescimento o di perfezione, come il dimostrano le voci «interminari», minacciar fortemente; «intermortuus», morto affatto; «interficere», finire un di ferite; «interdicere», apertamente ordinare (che non intendendo alcuni interpreti delle leggi, molto divagano dal vero d’intorno l’origine della voce «interdictum»).

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Rimane finalmente, per quello che riguarda questa parte dell’origini, da non doversi trascurare quella che voi chiamate «questione di nome» (p. 228): se la topica, critica e metodo abbiano a dirsi «arti», non «facultá».

Perché non altronde proviene la difficultá che i latini hanno avuto di rendere in loro idioma la voce ῥητορική, gli aiuti della quale fanno comunemente natura, arte ed esercitazione, cioè che la natura la promuove, l’arte l’indrizza, l’esercitazione la conferma; e ῥήτορες appo i greci non significa «maestri dell’arte», ma «oratori», i quali certamente non sono da stimarsi, se non hanno acquistato quella faciltá di ben parlare, che possano all’impronto patrocinare con eloquenza le cause. Talché, trattando io in quel libro di sottili differenze che si hanno da osservare circa la proprietá delle voci, m’importava non confondersi, particolarmente quando ioex professo le distingueva, per le gravi conseguenze che ne provengono, come una, quella che l’uomo con ciascuna facultá si fa l’oggetto proprio di quella. Onde puossi dare il fondamento a tutto ciò che ragiona, per vie non tentate innanzi da altrui, il barone Herberto nel suo libroDe veritate che ad ogni sensazione si spieghi e manifesti in noi una nuova facultá, che è il maggior argomento di quella metafisica.

Chiudo questa parte di ragionamento con quel fine che io feci proprio di questo luogo nellaRisposta (p. 206), e voi avete fatto fine di tutta la vostraReplica (p. 238): che non poteva la vostra gentilezza riposare sul credito di quello che io ne affermava; perché «oggidí si è appresa questa massima: che è assai pericoloso nelle cose filosofiche il voler fondare il suo sapere anzi sul credito di chi che sia, che sulla forza ed evidenza delle ragioni». Perché io ve ne priegava, non dove trattava delle cose e delle loro cagioni (dove è da osservarsi religiosamente la massima), ma di voci e delle loro origini, nelle quali signoreggia l’uso e l’autoritá.

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iv
Delle cose meditate.

Veniamo finalmente alle vostre opposizioni, che esse cose, che io in metafisica ho meditate, riguardano: la qual parte importa assai piú di tutte le tre altre unite insieme; perché la contesa del ripartimento della vostra censura fatto nella miaRisposta è una questione del giudizio di un uomo, che nulla o poco importa alla somma delle lettere; le due della condotta e delle origini possono essere per avventura prese per contese d’ingegno, che ne’ ritrovati piú stravaganti e ne’ maggiori paradossi suole riportar maggior lode: ma questa, che riguarda i princípi dell’umano sapere, questa sí, che dee e merita riputarsi di alto e gravissimo affare.

Però, innanzi di entrarvi, non posso far di meno non mostrare il mio rammarico, che in nulla mi avete fatto favore di quello nel fine dellaRisposta (p. 221) vi avea priegato: che, innanzi di avermi a fare altre difficultá, oltre a quelle che io mi proposi e risolsi, aveste avuto dinanzi agli occhi quelle tre diffinizioni: dellacausa, dellosforzo e dellaguisa, e vedere se forse, ad una o a tutte e tre ricorrendo, si potesse mai sciôrre.

Ora voi mi opponete (p. 232) che io dica cose per diametro opposte: che nel tempo istesso che «ripruovo l’analisi» di Renato, con la quale egli si dá a rintracciare la prima sua veritá in metafisica, «insiememente l’approvi», e in conseguenza «non la confuti, ma la biasimi».

Con buona vostra pace, in ciò è bastante rispondervi con solo replicare ciò che in quel libricciuolo ne ho scritto (cap.i, §iii, p. 138 sgg.). Io concedo quel metodo esser buono a rinvenire i certi segni ed indubitati del mio essere, ma non esser buono a ritrovarne le cagioni. Io nellaRisposta (p. 221) definii «cagione» quella che, per produrre l’effetto, non ha di

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cosa forestiera bisogno. Di sí fatta diffinizione immediato corollario è che la scienza è aver cognizione di questa sorta di causa (dunque il criterio di avere scienza di una cosa è il mandarla ad effetto), e che il pruovare dalla causa sia il farla; e questo essere assolutamente vero, perché si converte col fatto, e la cognizione di esso e la operazione è una cosa istessa. Questo criterio è in me assicurato dalla scienza di Dio, che è fonte e regola d’ogni vero (cap.i, §i, p. 131 sg.); e questo criterio mi assicura che le scienze umane sono unicamente le matematiche (cap.i, §i, p. 132), e che esse unicamente pruovano dalle cause: e oltre a ciò mi dá la distinzione delle altre, che sono notizie non scientifiche, ma o certe per via di segni indubbitati, o probabili per forza di buoni raziocini, o verisimili per la condotta di conghietture potenti. Volete insegnarmi una veritá scientifica? assegnatemi la cagione che tutta si contenga dentro di me, sí che io mi intenda a mio modo un nome, mi stabilisca un assioma del rapporto che io faccia di due o piú idee di cose astratte, e in conseguenza dentro di me contenute; partiamoci da un finto indivisibile, fermiamoci in uno immaginato infinito, e voi mi potrete dire: — Fa’ del proposto teorema una dimostrazione, — che tanto è a dire quanto: — Fa’ vero ciò che tu vuoi conoscere; — ed io, in conoscere il vero che mi avete proposto, il farò, talché non mi resta in conto alcuno da dubbitarne, perché io stesso l’ho fatto. Il criterio della «chiara e distinta percezione» non mi assicura della cognizion scientifica, perché usato nelle fisiche e nelle agibili cose, non mi dá una veritá dell’istessa forza che mi dá nelle matematiche. Il criterio del far ciò che si conosce me ne dá la differenza; perché nelle matematiche conosco il vero col farlo: nelle fisiche e nelle altre va la cosa altrimenti.

Ma i cartesiani dicono: egualmente con chiara e distinta percezione conoscere essi che «ove sieno tre misure, ivi sia corpo», come conoscono «il tutto esser maggior della parte». Domando: perché da questo assioma matematico nasce una scienza nella quale tutti convengono, e da quello fisico nasce una diffinizione che gli epicurei, per difendere il lor vano, la ci combattono? Questa sorta di confutare non è biasimare l’analisi di

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Renato, ma piú tosto farle giustizia; e cosí l’appruovo nella ragione che ha, ladisappruovo in quella che si vuole usurpare.

Mi opponete (p. 226) altresí «che non trovate né pur vocaboli negli antichi autori, che Zenone e gli stoici insegnassero i miei punti metafisici».

Confesso in veritá che, datamene l’occasione di meditargli dalla significazione delle due voci «punctum» e «momentum» (cap.iv, §ii, p. 153), io rivolsi il pensiero a Zenone. Perché ho sempre stimato che, siccome l’appoggiarsi tutto all’autoritá è camminare da cieco in filosofia, e fidarsi tutto al proprio giudizio è un andarvi senza nessuna scorta; cosí l’autoritá debba farci considerati a investigare le cagioni che mai potessero gli autori, e massimamente gravissimi, indurre a questo o quello opinare. Io avea, come tutti hanno, in grande stima quel filosofo, e particolarmente nelle cose di metafisica: dall’altro canto considerava la sua sentenza de’punti, come Aristotile la ci rapporta, troppo improbabile: che ’l corpo consti di punti geometrici, che è tanto dire quanto una cosa reale comporsi di cose astratte. Quindi mi diedi seriamente a meditare quali ragioni mai potessero far probabile cotal sentenza. Di Grecia mi ricevetti di nuovo in Italia a Pitagora, che stimava le cose costar dinumeri, che in un certo modo sono delle linee piú astratti. Quindi, riflettendo al grandissimo credito, che ebbero di sapere questi due principi di filosofiche sètte; e con la loro autoritá e con gli significati delle voci «punctum» e «momentum» mettendo insieme quel che ora aggiungo, che da’ latini diceasi «vis» ciò che noi diciam «quantitá», e l’«essenza», che noi dicemo, essi con le voci «vis» e «potestas» (cap.iv, §ii, p. 151) spiegavano; e aggiungendovi la comun de’ filosofi, che pongono l’essenze in cosa indivisibile ed immutabile; e fermando tutte queste riflessioni sopra quello che per l’istessa via giá sui princípi avea meditato (cap.i, §i), che talmente l’uomo opera nel mondo delle astrazioni come Iddio nel mondo delle cose reali: ne dedussi da tutto ciò in conseguenza che l’unica ipotesi, per la quale dalla metafisica nella fisica discender giammai si possa, sieno le matematiche; e che il punto

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geometrico sia una simiglianza del metafisico, cioè della sostanza; e che ella sia cosa che veramente è, ed è indivisibile; che ci dá e sostiene distesi ineguali con egual forza: perché, per le dimostrazioni del Galileo ed altre piene di maraviglia, le disuguaglianze quanto si vogliono grandi, ritirandoci al lor principio indivisibile, cioè a’ punti, tutte si perdono e si confondono. E cosí l’essenze delle cose tutte sono particolari divise virtú eterne di Dio, che i romani dissero «dii immortali»; le quali prese tutte insieme atto, intendemo e veneramo un solo Dio, potente il tutto. Se avessi voluto seguire la sola autoritá, avrei dato negli alterati rapporti che fa Aristotile della sentenza di Zenone; se avessi voluto seguire il solo proprio giudizío, l’avrei trascurata con tutti gli altri. Voi or desiderate autori di questo sentimento che do a Zenone. Io vi do il medesimo non alterato da Aristotile, non improbabile, come giace, ma vendicato da’ sinistri sentimenti altrui ed assistito dalla ragione. Che se finalmente non volete ricevere questa sentenza come di Zenone, mi dispiace di darlavi come mia; ma pur la vi darò sola e non assistita da nomi grandi.

Desiderate poi (p. 226) piú di spiegazione e di pruova che i punti e’ non s’intendano

delle parti in che si può dividere il continuo o la sostanza estesa, in quanto estesa ella è, ma ... della sostanza del corpo, presa nel suo concetto metafisico, nel quale «consistit in indivisibili», e «non suscipit magis et minus», conforme le maniere del favellare scolastico.

A me non mai cadde in pensiero che la sostanza del corpo dividasi, ma ch’ella è il principio nel quale le cose distese, quantunque disuguali, dividendosi, con ugual camino ritornano, (cap.iv, §ii) come per lo piú lungo ragionamento di quel libretto mi studio far chiaro.

Ma a voi questo termine di «punti» sembra (p. 226) non spiegato, non definito ed oscuro.

Io gli diffinisco, per tutto quel ragionamento, una tal cosa indivisibile, che, sotto a cose realmente distese ineguali, stavvi

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sotto egualmente, della quale il punto geometrico assolutamente può darne una simiglianza. Vorreste nel definirla idee proprie, non simili. Ma la metafisica non ci permette di mirar le sue cose altrimente. Perciò dunque è oscura? Anzi perciò ella è chiara quanto la luce (cap.iii, pag. 150): «Ad hoc instar metaphysicum verum illustre est, nullo fine concluditur, nulla forma discernitur; quia est infinitum amnium formarum principium: physica sunt opaca, nempe formata et finita, in quibus metaphysici veri lumen videmus». Il mezzo proporzionato per mirare nelle fisiche cose la metafisica luce sono le sole matematiche, che da cose formate e finite, dal corpo disteso astraggono l’infinito, l’informe, il punto, e ’l si fingono indivisibile e che non ha estensione alcuna, e dal punto cosí definito procedono a fare le loro veritá.

Diciamla con vostri termini. «Questo termine non definito involge tutto quel trattato in tenebre, per cosí dire, palpabili». Con questa giunta però: a certi cartesiani, che con l’aspetto di fisici guardano le metafisiche cose, per atti e forme finite, cioè non credono esser luce se non dove ella riflette: vizio per diametro opposto a quello degli aristotelici, che guardano le cose fisiche con aspetto di metafisici, per potenze e virtú, e cosí credono esser luce quelle cose che sono opache. Noi ci sforziamo guardarle con giusti aspetti, le fisiche per atti, le metafisiche per virtú (cap.iv, §ii, pag. 158). «Non vidit haec Aristoteles, quia metaphysicam recta in physicam intulit: quare de rebus physicis metaphysico genere disserit per virtutes et facultates. Non vidit Renatus, quia recta physicam in metaphysicam extulit, et de rebus metaphysicis physico genere cogitat, per actus et formas. Utrumque vicio vertendum». Noi ci abbiam frapposto la geometria, che è l’unica ipotesi per la quale dalla metafisica in fisica si discende.

Però mi replicate (p. 226): il raffinato buon gusto del secolo ha sbandito questi vocaboli di «virtú», di «potenze» e di «atti»; e cosí li reputa mal intelligibili, come quelli di «simpatie», «antipatie» e «qualitadi occulte».

Questa è invero una grande opposizione, ed è grande, perché opposizione non è; perché, ritirandosi gli avversari al

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tribunale del proprio giudizio, con quel dire: — Di cotesto, che tu dici, non ho idea, — di avversari divengono giudici. Ma diamo essi nella diffinizione della sostanza cosa migliore, e poi dicano «mal intelligibili» queste voci «potenze» ed «atti». Essi diffiniscono la sostanza «cosa che è», «cosa che esiste». Però io feci vedere nellaRisposta (p. 220) quanto cotal diffinizione sia sconcia e contraria a se stessa: confondere ciò che è con ciò che esiste, cioè l’essere e l’esserci, ciò che sta sotto e sostiene con ciò che sovrasta e s’appoggia, la sostanza con l’attributo, e finalmente l’essenza con l’esistenza. Di che poi nascono quelli cotanto impropri parlari: «Ego sum», «Deus existit», che «io sono» e «Dio ci è»; quando Iddio propriamente è, ed io sono propriamente in Dio: che, con molta proprietá di vocaboli, le scuole dicono «Dio essere sostanza per essenza, le cose create esserlo per participazione». M’insegnino poi da qual altra metafisica hassi il criterio, per lo quale nelle veritá geometriche tutti uniformente convengono, poiché non può darcelo la «chiara e distinta percezione»; perché, usandola essi in fisica, per quella la conoscenza delle naturali cose non sono divenute punto piú scientifiche. Mi spieghino pure con qual chiara e distinta idea concepiscono essi la linea costar di punti, che non han parti; e, quando non possono sopportare questa indivisibile virtú nelle cose reali, s’inducono uniformemente a ricevere il punto impartibile, e non piú tosto definirlo «minimo divisibile in infinito»? Ma il punto diffinito impartibile ci dá quelle maraviglie dimostrate: che grandezze e moti incommensurabili, ritornando a’ princípi, cioè a’ punti, uguagliano ogni dissuguaglianza. E finalmente avrei voluto essere addottrinato in quel «granello di arena», che io dissi nellaRisposta (p. 218): cosa sia quella che, dividendolo, ci dá e ci sostiene un’infinita estensione e grandezza; se questa grandezza vi sia inatto, e ’l granello di arena sia attualmente infinito, o in sostanza e in virtú, per la quale risponda ad ogni quanto si voglia massima estensione. Era d’uopo prima dileguare queste cose, e farlemi vedere che son nebbie; e poi sarebbe stato ragionevole il dire: «il raffinato buon gusto del secolo», ecc.
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Ma, lasciando il secolo, cioè i cartesiani filosofi di questo secolo, ritorno a voi; e sia con buona vostra licenza lecito dirlo, che, in replicarmi cotesto, non mi fate ragione. Io mi servo de’ vocaboli di «virtú» e di «potenze» appunto come se ne servono i meccanici, appo i quali sono voci celebratissime: con questo però di vario, ch’essi l’attaccano a’ corpi particolari, ed io dico esser dote propria e sola dell’universo. Io nellaRisposta (p. 221) diffinii la virtú: «lo sforzo del tutto, col quale manda fuori e sostiene ogni cosa particolare». E questo istesso, seguendo il buon gusto raffinato del secolo; perché parmi tanto dare conato a’ corpi, quanto alle insensate cose talento, appetito e voglia. Onde dissi apertissimamente (cap.iv, §iii, p. 161): «Iam enim meliorum virtute physicorum illud disserendi genus per ‘studia’ et ‘aversiones naturae’, per ‘arcana eiusdem consilia’ quas ‘qualitates occultas’ vocant, iam, inquam, sunt e physicis scholis eliminata. Superest adhuc ex metaphysica id ‘conatus’ vocabulum. Quare quo disserendi genus de rebus physicis omnino perficiatur, e physicorum scholis est ad metaphysicos amandandum».

Perché poi il conato sia uno nel tutto, e in conseguenza in tutti i disuguali movimenti sempre eguale a se stesso, i cartesiani medesimi il dovrebbero, in conseguenza de’ loro princípi, raccôrre. Essi ricevono con gli aristotelici la divisione del corpo in parti divisibili in infinito, nel che noi anche con esso lor conveniamo: perché Aristotile sconvien da Zenone in cose diverse, convien nel medesimo: egli divide in infinito l’estensione, l’attributo; Zenone dice indivisibile la sostanza, l’essenza (cap.iv, §ii, pag. 155). «Itaque mihi videtur de alio Aristoteles cum Zenone contendere, in idem autem convenire. Nam ille de actu [cioè dell’attributo],hic loquitur de virtute [cioè della sostanza]». Riceveranno adunque la medesima divisione nel moto; perché, data una bilancia equilibrata, onde pendano quanti si vogliano pesi uguali; s’aggiunga da una parte un granello: domando: se tutto o parte di quello lo faccia sbilanciare? Non dirá alcuno certamente tutto il granello, perché io il dividerò, e, con una parte forse, la bilancia anche sbilancerá. Torno a domandare

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della metá, se tutta o parte di quella; e cosí, domandando io il medesimo delle altre parti minori, e tuttavia minori, con la divisione, li menerò all’infinito. Dunque il principio di cotal moto, che diciamo «sbilanciamento», hassi a ritrovare nell’universo. Ma il tutto, or soggiungo, egli è pieno. Dunque quello, che è moto ne’ corpi particolari, nell’universo moto non è, perché l’universo non ha con chi altro possa mutar vicinanza, in che essi pongono l’essenza del moto. Dunque è una forza che fa dentro di se medesimo: questo in se stesso sforzarsi è uno in se stesso convertersi. Ciò non può essere del corpo, perché avrebbe ciascuna parte del corpo a rivoltarsi contro di se medesima5; onde questo sarebbe tanto, quanto le parti del corpo si replicassero. Dunque, dico io, il conato non è del corpo, ma dell’universo del corpo.

Questa metafisica schiva quel duro scoglio della «comunicazione de’ moti», che è molto piú indiffinito, oscuro e impercettibile che le «qualitadi occulte», le «simpatie», l’«antipatie». Perché le «qualitadi occulte» sono nomi onesti dell’ignoranza delle cagioni; le «simpatie» l’«antipatie» si fingono da’ poeti, che dánno alle cose insensate senso e volere: ma la «comunicazione de’ moti», involgendo cose affatto ripugnanti tra loro, come impossibile, incredibile, né meno può esser materia di favola: che lasci il corpo ciò che non può star senza il corpo, e che passi da corpo a corpo ciò che non è altro in sostanza che corpo e corpo. Nella percossa, per esempio, è in moto la mano che percuote; è in moto la palla che par quieta, per quello ne ragionammo (cap.iv, §iv, p. 166) non darsi quiete in natura; è in moto l’aere, che circonda e la palla e la mano, ed è lo spazio che tra la mano e la palla si frappone; è in moto l’aria allo spazio vicina, e l’altra vicino a questa infino all’universo. Al moto della mano dunque, perché egli è pieno, risentesi l’universo; e sí il moto di ciascheduna parte diviene sforzo del tutto: lo sforzo

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del tutto è in ciascheduna sua parte indefinito. Dunque la percossa non serve ad altro che di occasione che lo sforzo dell’universo, il quale era sí debole nella palla, che sembrava star queta, alla percossa si spieghi piú, e, piú spiegandosi, ci dia apparenza di piú sensibile moto.

Ed è tanto lungi dal vero che questa metafisica sconvenga al buon gusto della nostra etá, che ora nelle matematiche, e in conseguenza nelle meccaniche, si parla con termini d’infiniti «massimi», «minimi», «maggiori», «minori», «maggiori e maggiori», «minori e minori», e «l’uno infinitamente maggiore o minore dell’altro»: li quali termini stravolgono certamente l’umano interdimento, poiché l’infinito è schivo d’ogni multiplicazione e comparazione, se non ci soccorre una metafisica, nella quale sia stabilito che in ogni parte distesa, atto finito, in ogni moto, atto terminato, siavi sotto virtú o potenza di estensione e di moto sempre uguale a se stessa, cioè, in tutti gli attuali distesi ed attuali movimenti, infinita.

È dunque il conato proprietá della materia de’ corpi: della materia, dico, metafisica, che è la sostanza, non della materia fisica, che è esso corpo, del quale è proprio il muoversi. La qual differenza di materia fisica da metafisica fu da me data ove scrissi (cap.ii, p. 146): «Atque hoc differt inter materiam physicam et metaphysicam. Physica materia ideo quamlibet formam peculiarem educat, educit optimam; quia qua via educit, ea ex omnibus una erat. Materia autem metaphysica, quia peculiares formae omnes sunt imperfectae, genere ipso, sive idea, continent optimam». Talché la materia fisica è ottima a ricevere di tutte una forma particolare; la metafisica è ottima a riceverle tutte insieme: perché la materia fisica è il corpo, che è circonscritto; la metafisica è la sostanza del corpo, che non la puoi diffinire. E perciò per la generazion d’una pianta, per esempio, non basta ogni acqua, ogni aria, ogni terreno; onde sotto diversi cieli diverse sorte se ne producono, che, traspiantate, non allignano altrove. Ma la materia metafisica è docile ad egualmente ricever tutte; perché la sostanza sta sotto a tutte ugualmente, perché lo sforzo in mandarle fuora e sostenerle è in

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tutte eguale. Onde s’inferisce che, sí come in fisica si trattano le cose per termini di «corpo» e di «moto», in metafisica trattar si debbano per quelli di «sostanza» e di «conato»; e, come il moto non è altro realmente che corpo, cosí il conato altro realmente non sia che sostanza. Dalle quali cose tutte, cosí considerate, vedrete soddisfatto, io spero, tutto quel gruppo di opposizioni che mi fate intorno al «conato» (p. 227), le quali tutte dipendono da quella prima minore: «Ma il conato, conforme insegna il nostro autore, è lo stesso moto», la qual sí che sembra aver bisogno di pruova.

Vagliami terminar questa disputa con questa riflessione. Il raffinato buon gusto del secolo resta oggi tutto appagato, se vede gli effetti della fisica pruovati con gli effetti della meccanica, cioè con esperimenti che ci diano lavori simili a quelli della natura. Dunque dovrebbe anche appagarsi, se vedrá pruovate le cagioni della fisica con le cagioni della geometria, che nel mondo delle astrazioni operano simimilmente che la metafisica nel mondo delle realitadi. E riceva la sostanza diffinita in quella maniera che si può, con l’attributo dimostrato dell’uguaglianza de’ suoi sostentamenti e sforzi; onde s’intenda quel

Iupiter omnibus aequus;

poiché l’uniche conoscenze scientifiche, che possiamo aver giammai, sono quelle intorno a’ rapporti di grandezza e di moltitudine. Talché la prima idea che i filosofi hanno di Dio, dalla quale poi raccogliono tutti i suoi divini attributi, è quella d’infinito, che è un rapporto della grandezza.

Ma voi dite (p. 227) che «tal concetto, ch’io do alla sostanza, convenendo altresí alle sostanze spirituali e pesanti, se ne potrebbe dedurre che queste ancora siano principio di estensione e di moto; il che per altro è un manifesto assurdo».

Questa difficultá, come quelle che fate dell’immortalitá dell’anima, dove par che premete la mano con ben sette argomenti, se non me fusser fatte da voi, io giudicherei che andassero piú altamente a penetrare in parte, la quale, quantunque si protegga e sostenga con la vita e coi costumi, pure s’offende con

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l’istessa difesa. Ma trattiamo le cose. «Sostanza in genere» dico esser ciò che sta sotto e sostiene le cose, indivisibile in sé, divisa nelle cose che ella sostiene; e sotto le divise cose, quantunque disuguali, vi sta egualmente. Dividiamola nelle sue spezie. «Sostanza distesa» è quella che sostiene estensioni disuguali egualmente; «sostanza cogitante» è quella che sostiene pensieri disuguali egualmente; e, sí come una parte dell’estensione è divisa dall’altra, ma indivisa nella sostanza del corpo, cosí una parte della cogitazione, cioè a dire un pensiero, è divisa dall’altra, cioè da altro pensiero, ed è indivisa nella sostanza dell’anima. Credo, se non erro, essersi schivato ogni assurdo.

Passiamo ora a quelle dell’immortabilitá dell’anima umana. Credettero gli antichi l’«animo» esser veicolo del senso, ed esser l’aria insinuata ne’ nervi; come l’«anima» veicolo della vita, ed esser l’aria insinuata nel sangue. Però non ho creduto giammai che in ciò la gentile teologia servisse alla cristiana. Ma io nellaRisposta (p. 221) definiva la forma metafisica: «guisa onde ciascuna cosa si forma, che si ha a ripetere onde furono mossi gli elementi da prima e da tutte le parti dell’universo». Dissi altrove (cap.i, §i, p. 132) che ’l sapere vero è sapere la guisa: «Scire enim est tenere genus seu formam, qua res fiat». E nel medesimo luogo diedi cotal differenza tra ’l vero divino ed umano, che «verum divinum est imago rerum solida, tamquam plasma; humanum ... plana, tamquam pictura». E la ragione è spiegata ivi: «Scientia sit cognitio generis, seu modi, quo res fiat, et qua, dum mens cognoscit modum, quia elementa componit, rem faciat; solidam Deus quia comprehendit omnia, planam homo quia comprehendit extima». Onde la mente umana viene ad essere come uno specchio della mente di Dio: e perciò pensa l’infinito ed eterno, e quindi la mente umana non è terminata da corpo, e in conseguenza non è anche terminata da tempo, che è misurato da’ corpi. Dunque ella è, in ultima conchiusione, immortale. Se non avessi posto quelle definizioni della guisa e della scienza e quella differenza del vero umano e divino che ho detto, avrebbero luogo quelle vostre ben sette difficultá.

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Ma quivi (p. 231) a torto (con buona vostra pace sia detto) mi accusate d’ingiustizia, perché io dissi nellaRisposta aver io scritto che ’l moto del sangue si debba a’ nervi, e voi aver riferito il contrario. Perché manca nel rapporto quella spiegazione che fate or nellaReplica («e chi? l’aria stessa di lá, cioè dall’arterie e dalle vene»): oltre che, con dire «di lá ne’ canali de’ nervi», sembra negarsi che prima siasi il moto dell’aria ne’ canali de’ nervi insinuato; e ragionevolmente poteva alcun credere che, essendo nel cuore vasi e sanguigni e nervosi, l’aria non ne’ nervosi, da’ quali son mossi i muscoli de’ suoi ventricoli, che sono le chiavi maggiori del sangue, ma ne’ canali del sangue siasi prima di tutti insinuato. E, quantunque addolcite la puntura del mal costume con quelle parole: «Certamente pare che ’l signor di Vico commetta contro di noi quell’ingiustizia che riferisce l’autore dell’Arte del pensare essere stato solito commettere Aristotile contro certi filosofi, a cui egli a torto attribuiva qualche grosso errore, per poi mostrare d’averli gagliardamente confutati»; io però mi contento del mio poco sapere ingenuo che esser comparato di mal costume ad un gran filosofo.

L’ultima delle vostre opposizioni (p. 228) sia quella che fate contro ciò che ho ragionato della topica, critica e metodo. Prima dite che io suppongo esservi apprensioni false: «e forse ciò è una falsitá, una gran parte de’ filosofi insegnando che le apprensioni essenzialmente sian vere, come ancora il sono tutte le sensazioni». Io non mai ho inteso dire false le apprensioni nell’esser loro: perché i sensi, anche allorquando ingannano, fanno fedelmente l’ufficio loro; ed ogni idea, quantunque falsa, porta seco qualche realtá, essendo il falso, perché nulla, impercettibile. Ma le ho dette false, in quanto sono urti e spinte al precipizio della mente in giudizi falsi.

Dite che «la topica è arte di ritruovare ragioni e argomenti per pruovar che che sia; né mai infino ad ora aver veduto topica veruna, che diaci regole di ben regolare e dirigere le semplici apprensioni delle nostre menti».

Io pur diffinisco cosí la topica; ma «argomento», in quest’arte, non suona «disposizione di una pruova», come volgarmente

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si prende e da’ latini «argumentatio» si appella; ma s’intende quellaterza idea, che si ritrova per unire insieme le due della questione proposta, che nelle scuole dicesi «mezzo termine»; talché ella è un’arte di ritruovare il mezzo termine. Ma dico di piú: che questa è l’arte di apprendere vero, perché è l’arte di vedere per tutti i luoghi topici nella cosa proposta quanto mai ci è per farlaci distinguer bene ed averne adeguato concetto; perché la falsitá de’ giudizi non altronde proviene che perché l’idee ci rappresentano piú o meno di quello che sono le cose: del che non possiamo star certi, se non avremo raggirata la cosa per tutte le questioni proprie che se ne possano giammai proporre. Che è la via che tien l’Herberto nella suaRicerca della veritá, che veramente altro non è che una topica trasportata agli usi de’ fisici sperimentali.

Dite: «Critica esser arte che insegna come abbiasi a giudicare dell’opere prodotte sí da’ nostri ingegni, sí dagli altrui: ma che quella sia arte direttrice di quell’operazione del nostro intelletto, la quale tiene il secondo luogo e comunemente chiamasi ‘giudizio’, non ancora noi sappiamo».

L’arte altro non è che un ammasso di precetti ad un certo fine ordinati: vorrei sapere la comprensione di tutte quelle regole, che si prescrivono in logica circa il criterio della veritá, con qual altro vocabolo, se si vuole propriamente parlare, può appellarsi che «critica»? Non certamente con altro, ci risponderá un che professa di greco. Ed è tanto vero che quest’arte di giudicare è una gran parte della logica, che gli stoici, i quali stavano tutti sopra di questa, con quel loro fasto, la chiamarono «dialettica» col nome del tutto. Cosí ne ragiona Cicerone6: «Cum omnis ratio diligens disserendi [questa è la logica]duas habeat partes, unam inveniendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit. Stoici autem in altera elaboraverunt. Iudicandi enim vias diligenter persecuti sunt, ea scientia, quam ‘dialecticen’ appellant [non detto a caso che gli stoici cosí

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l’appellavano, perché la lingua comune la direbbe «critica»].Inveniendi vero artem, quae ‘topice’ dicitur, quaeque ad usum potior erat, et ordine naturae certe prior [perché prima è l’apprendere, poi il giudicare],totam reliquerunt». Ma voi per avventura avete preso la voce «critica» nella significazione de’ grammatici, o vogliam dire letterati, non de’ filosofi, e perciò vi siete indotti a dir ciò.

Del metodo finalmente osservate (p. 228 sg.): lui chiamarsi da’ cartesiani «un’arte di ben ordinare e disporre i nostri pensamenti, per poter noi arrivare a una qualche scienza o per insegnarla altrui». Sicché alla medesima scienza conducendoci varie diffinizioni, divisioni, postulati, assiomi e dimostrazioni, non insegna il metodo come abbiamo a ben diffinire, a ben dividere, a ben giudicare, a ben discorrere, essendo ciò proprio dell’altre parti della loica; ma solo insegnaci come abbiamo tutte quelle cose a ordinarle acconciamente e disporre, di modo che facile riesca e comodo l’acquisto della scienza propostaci. Onde conchiudete che l’ordinare è una operazione distinta dalle tre prime; e, dato che sia arte, ella non è «direttrice della facoltá del ragionare e discorrere, ma direttrice della facoltá dell’ordinare e disporre».

Qui, o voi intendete per «metodo» l’analisi, come sembrano usarla i cartesiani, con la quale da una cosa proposta si dividono le comuni, per venire alla cognizion delle proprie, a fine di conoscerne le proprietá, per poi ben diffinirla; e di questa si servirono bene gli antichi, come Platone nelSofista, il qual dialogo non è altro che una continua analisi, con la quale Socrate dassi a dividere l’arte, e rimuovere tutte le altre sue spezie per diffinir la sofistica. Ma però il dividere e ’l diffinire sono lavori della seconda operazion della nostra mente; e questi sono regolati dalla critica, nella quale, perché con essa hassi a dividere, prevagliono gli uomini d’acre ingegno: sí come andar componendo una cosa con tutte le altre che vi hanno attacco o rapporto (che è l’altra spezie di metodo, che s’appella «sintesi», che in fatto è ritrovare) è opera della semplice percezione, che fassi

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regolar dalla topica: la qual via tenne Aristotile, che non scende quasi mai a diffinir cosa, se non prima ha visto quanto in quella o dentro o fuori vi sia. La topica ritruova ed ammassa; la critica dall’ammassato divide e rimuove: e perciò gl’ingegni topici sono piú copiosi e men veri; e critici sono piú veri, ma però asciutti. — O intendete per «metodo» da vero immediatamente far nascere vero: e questa è la famosa regola delle scuole, e l’uso di essa e ’l maggior frutto di quella lor logica, di porre sempre il negato in conseguenza, né mutar mai mezzo termine; e questa è l’arte di regolare i discorsi.

Ma voi intendete «metodo» quel che dispone diffinizioni, postulati, assiomi, dimostrazioni.

Parliamo con vocaboli propri, per far commercio d’idee distinte. Cotesto, che voi co’ cartesiani dite in genere «metodo», egli è in speciemetodo geometrico. Ma il metodo va variando e multiplicandosi secondo la diversitá e multiplicazione delle materie proposte. Regna nelle cause il metodo oratorio, nelle favole il poetico, nelle istorie l’istorico, nelle geometrie il geometrico, nella dialettica il dialettico, che è arte di disporre un argomento. Che se il metodo geometrico è la quarta operazione della nostra mente, o l’orazione, la favola, l’istoria hassi a disporre con metodo geometrico, o le loro disposizioni non hanno a qual operazione della nostra mente ridur si debbano: o se il metodo geometrico è degno di esser quarta operazion della nostra mente, non avendo egli ragione sopra le altre giá dette, pretenderanno l’oratoria esser quinta, la poetica sesta, l’istorica settima, e potranno pretendervi il loro luogo l’ordine dell’architettura, l’ordine di schierare battaglie, e sopra tutti questi, perché comanda a tutti questi, l’ordine col quale s’ordinano le repubbliche; perché tutti questi sono pur ordini di pensare.

Però direte: — Noi qui trattiamo di metodo che ci conduca all’acquisto di qualche scienza, e non d’altri. — Ma le percezioni, i giudizi, i discorsi non scientifici pur si riducono alle tre operazioni di nostra mente. Dunque: o il metodo, anche come voi il volete, è operazione della nostra mente, alla quale e gli scientifici e gli non scientifici si riducono; o le percezioni e i

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giudizi e i discorsi non scientifici non sono operazioni della nostra mente.

Ma tutte altre materie, fuori che noveri e misure, sono affatto incapaci di metodo geometrico. Cotal metodo non procede se non prima diffiniti i nomi, gli assiomi fermi, e convenuto nelle domande. Però in fisica si hanno a diffinire cose e non nomi; non vi ha placito che non sia contrastato, né puoi domandar nulla dalla ritrosa natura. Talché parmi un’affettazion poco degna quel dire in parole: «per la definizion 4», «per lo postulato 2», «per l’assioma 3», e conchiudere con quelle solenni breviature «Q. E. D.»; e in fatti non far niuna forza alla mente col vero, ma lasciarla in tutta la libertá d’opinare, che avea avanti di udire cotali metodi strepitosi. Il metodo geometrico vero opera senza farsi sentire, ed, ove fa strepito, segno è che non opera: appunto come negli assalti l’uom timido grida e non ferisce, l’uomo d’animo fermato tace e fa colpi mortali. Onde un vantatore di metodo, ove il metodo non tragge necessitá di acconsentire, quando egli dice «questo è assioma», «questo è dimostrato», sembrami simile ad un pittore, che ad immagini informi, le quali per sé non si potesser distinguere, scrivesse sotto: «questo è uomo», «questo è satiro», «questo è leone», «questo altra cosa».

Ricrediamci: con l’istesso metodo geometrico Proclo dimostra i princípi dellaFisica d’Aristotile, Renato i suoi, se non tutti opposti, almeno tutti diversi; e pur sono due gran geometri, de’ quali non puossi dire che non seppero usar il metodo. Dunque hassi a conchiudere che le cose, le quali non sono linee o numeri, affatto non lo sopportano; e, trasportatovi, non opra piú che la topica, la qual vale a pruovare una proposta questione da entrambe le parti opposte. Onde quel dirmi «questa è dimostrazione per me» non è altro in fatti che professare non esserla; perché, se veramente la fusse, ella sarebbe per tutti e due. E l’avversario per avventura, che non la ravvisa, come Cicerone7 riprende il sorite, che in tutto risponde

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al metodo cartesiano, cosí può con quelle parole confutarlo: «Huc si perveneris, me tibi primum quidque concedente, meum vitium fuerit; sin ipse tua sponte processeris, tuum». Ma io non ti ho conceduto che i corpi si sforzano, o che dassi moto dritto in natura, o che in natura si dá quiete, o che si comunica il moto; che sono le prime fila onde ordisci cotesta fisica tela. Però in questa guisa è badare alle parti. Ma teniamo conto pur della somma.

Le filosofie al mondo non han per altro servito che per fare le nazioni, tra le quali fiorissero, mobili, destre, capaci, acute e riflessive, onde gli uomini fossero nell’operare pieghevoli, pronti, magnanimi, ingegnosi e consigliati; le matematiche, perché fossero ordinati, onde avessero il buon gusto del bello, dell’acconcio, del ben inteso. Or la repubblica delle lettere fu cosí da prima fondata, che i filosofi si contentassero del probabile, e si lasciasse a’ matematici trattare il vero. Mentre si conservaron questi ordini al mondo, del quale avemo notizia, diede la Grecia tutti i princípi delle scienze e delle arti, e quei felicissimi secoli furono ricchi d’inimitabili repubbliche, imprese, lavori e detti e fatti grandi; e godé l’umana societá, da’ greci incivilita, tutti i commodi e tutti i piaceri della vita sopra de’ barbari. Sorse la setta stoica, e, ambiziosa, volle confonder gli ordini e occupare il luogo de’ matematici con quel fastoso placito: «Sapientem nihil opinari»; e la repubblica non fruttò alcuna altra cosa migliore. Anzi nacque un ordine tutto opposto, degli scettici, inutilissimi all’umana societá; e n’ebbero dagli stoici lo scandalo, perché quelli, vedendo questi asseverare per vere le cose dubbie, si misero a dubitare di tutto. La repubblica, spenta da’ barbari, dopo lunghi secoli, sugli stessi ordini si rimise, che ’l censo de’ filosofi fosse il probabile, de’ matematici il vero: e si restituirono quasi tutte le arti e le discipline dell’onesto, del commodo e del piacere umano nell’antico loro perduto lustro, e in molte parti forse anche maggiore.

Si sono ultimamente di nuovo sconvolti gli ordini, e si è occupato dal probabile il luogo del vero: si è invilito questo nome «dimostrazione», trasportandosi ad ogni ragione, non che

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probabile, bene spesso apparente; e, come egli avvenne de’ titoli, che quel di «signore», che fu rifiutato come troppo superbo, da Tiberio, usandosi poi dare ad ogni vilissimo uomo, ci ha fatto perdere la grave idea di cotal voce; cosí il vocabolo «dimostrazione», dato a probabili e talora apertamente false ragioni, hacci profanato la venerazion della veritá. Or vediamo gli avanzi, senza computar i gran danni che arreca, e che molto maggiori ha di brieve ad arrecare il senso proprio fatto regolatore del vero, che non si leggono o radi si leggono gli antichi filosofi: perché la mente è come un terreno, che, per quanto sia di fecondo ingegno, se tuttavia non s’ingrassa con la varia lettura, a capo di tempo si sterilisce. E, se talora alcuno se ne legge, si legge tradotto, perché si stimano oggi inutili gli studi delle lingue, sull’autoritá di Renato, che dicea: «saper di latino non è saper piú di quello sapea la fante di Cicerone»; e, l’istesso intendendosi anche detto della greca, la cultura di queste due lingue ha fatto perdite considerabili, che amaramente deplora, con tutto che francese, il Dupino; perché le due nazioni, una la piú dotta, l’altra la piú grande del mondo, solamente con la lezione de’ loro scrittori ci potevano comunicare il loro spirito. Si pensano, sí, nuovi metodi, ma non si trovano nuove cose; ma bensí queste si prendono dagli sperimentali e s’apparecchiano in nuovi metodi: perché il metodo è buono a ritruovare, ove tu possi disporre gli elementi col metodo; lo che riesce unicamente nelle matematiche, e nelle fisiche ci viene negato. Ma, quel che piú importa, si è introdotto uno scetticismo inorpellato di veritá, perché d’ogni particolar cosa si fan sistemi, che vuol dire che non vi ha cosa commune in che si convenga e dalla quale le particolari cose dipendano; ed avviene quel vizio, che Aristotile8 nota negli uomini di mente corta, che d’ogni particolar evento determinano massime generali di vita. Si dee certamente obbligazione a Renato, che volle il proprio sentimento regola del vero, perché era servitú troppo vile star
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tutto sopra l’autoritá; gli si dee obbligazione che volle l’ordine nel pensare, perché giá si pensava troppo disordinatamente con quelli tanti e tanto sciolti tra loro «obiicies primo», «obiicies secundo». Ma che non regni altro che ’l proprio giudizio, non si disponga che con metodo geometrico, questo è pur troppo.

Ormai sarebbe tempo da questi estremi ridursi al mezzo: seguire il proprio giudizio, ma con qualche riguardo all’autoritá; usare l’ordine, ma qual sopportan le cose. Altrimente, s’avvedranno, tardi però, che Renato egli ha fatto quel che sempre han soluto coloro che si son fatti tiranni, i quali son cresciuti in credito col parteggiare la libertá; ma, poiché si sono assicurati nella potenza, sono divenuti tiranni piú gravi di quei che oppressero. Imperocché egli ha fatto trascurare la lezione degli altri filosofi, col professare che con la forza del lume naturale uom possa sapere quanto altri seppero. E i giovani semplicetti volentieri cadono nell’inganno, perché la lunga fatica di moltissima lezione è molesta, ed è grande il piacer della mente d’apparar molto in brieve. Ma esso infatti, benché ’l dissimuli con grandissima arte in parole, fu versatissimo in ogni sorta di filosofie, matematico al mondo celebratissimo, nascosto in una ritiratissima vita, e, quel che piú importa, di mente che non ogni secolo suol darne una simigliante. Co’ quali requisiti, che uom voglia seguire il proprio giudizio, il può, né altro ha ragion di poterlo. Leggano quanto Cartesio lesse Platone, Aristotile, Epicuro, santo Agostino, Bacone da Verulamio, Galileo; meditino quanto Cartesio in quelle sue lunghissime ritirate; e ’l mondo avrá filosofi di ugual valore a Cartesio. Ma, col Cartesio e con la forza del natural lume, sempre saranno di lui minori; e Renato avrassi stabilito tra loro il regno, e preso il frutto di quel consiglio di rea politica, che è di spegnere affatto coloro per li quali si è giunto al sommo della potenza. E qui protesto aver detto queste cose un poco piú chiara e diffusamente, comandato da voi a spiegarmi e da voi ripreso di brevitá, perché non volli mai dispiacere a’ dottissimi cartesiani, co’ quali ho stretti vincoli d’amicizia. Ma, perché essi sono oltre Cartesio dottissimi, il devono prendere in quella parte piú tosto, che, per

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utile del mondo, propongo essi in essempio a’ giovani, che vogliono divenire valorosi filosofi.

Vagliami conchiudere finalmente con una risposta, la quale serva per tutte le vostre opposizioni: che quanto mi avete opposto, egli l’avete fatto in grazia de’ giovani che si dilettano di si fatti studi; e, prendendo la loro causa e persona all’uso degli oratori, che dicono esser loro ragione quella che è in veritá de’ clienti, coteste difficultá, che poteano far essi, e potevate voi di tutte soddisfargli, avete voi fatto contro di me, acciocché il libro, che innanzi scrissi per dotti, come per voi, ora servisse anche per essi. M’inducono e l’onorevolezza loro mi lusingano a crederlo quelle vostre parole (p. 237):

E qui siaci lecito di protestare che tutte le sopradette cose non adduconsi da noi per genio di volerle contradire e impugnar come false, o almeno come improbabili; ma solo intendesi di semplicemente accennarle come bisognose di qualche sorta di spiegazione e di pruova. Che se ’l signor Giambatista di Vico, in cui abbiam sempre considerato la gentilezza uguale alla dottrina, vorrá riguardare questa nostraReplica come degna di qualche novellaRisposta, allora noi, unendo insieme, come in un sol corpo, e ’l suo primo libricciuolo diMetafisica, e ’l secondo libricciuolo della suaRisposta, e ciò che noi avrem detto nel presente articolo e ciò che a lui sará paruto di rispondere a noi: allora, io dico, ci riputeremo d’avere ottenuto il nostro intento, cioè di tutte quest’opere insieme essersi composta, non piú una brevissima idea di metafisica, ma una metafisica intiera e in tutte le sue parti perfetta.

Talché io voglio, e devo volerlo, che ’l mondo creda, con questaRisposta me non contender con esso voi, ma avervi ubbidito. Ed, ossequiando tutte le Loro Signorie illustrissime, fo loro umilissima riverenza.

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Dichiarazione

Perché in questi miei libricciuoli di metafisica alcuno non possa con mente men che benigna niun mio detto sinistramente interpretare, metto qui insieme le seguenti dottrine sparsevi, dalle quali si raccoglie ciò che professo: che le sostanze create, non solo in quanto all’esistenza, ma anche in quanto all’essenza, sono distinte e diverse dalla sostanza di Dio. Nel cap.iv, §i, dellaMetafisica (p. 151), dico l’essenze essere le virtú delle cose: nellaPrima risposta (p. 220 sg.), dico che l’essenza è propria della sostanza; nellaSeconda risposta (p. 262), dico che l’essere è proprio di Dio, l’esserci è delle creature, e che ciò con molta proprietá dicesi nelle scuole: «Dio essere sostanza per essenza, le cose create per partecipazione». Talché, essendo Dio altrimente sostanza, altrimente le creature, e la ragion d’essere o l’essenza essendo propria della sostanza, si dichiara che le sostanze create, anche in quanto all’essenza, sono diverse e distinte dalla sostanza di Dio.