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Giambattista Vico: Opere
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V: L’Autobiografia, Il Carteggi, E Le Poesie Varie
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III. Poesie Varie. Filosofiche e Autobiografiche

III. Poesie Varie. Filosofiche e Autobiografiche
313 ―

I
Affetti di un disperato
(1692)

Lasso, vi prego, acerbi miei martíri,
a unirvi insiem ne la memoria oscura,
se cortesi mai sète in dar tormento;
poiché son tanti, che lo mio cor dura,
di mille vostre offese i vari giri,
ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:
talché di rimembrar meco pavento
le mie sciagure. Or voi, sospiri accesi,
ite a seccarmi i pianti in mezzo al varco
del ciglio d’umor carco;
e voi, da miei sospir miei pianti offesi,
tornando in giú, di lor vi vendicate
con sommergerli adentro ’l mesto core,
a cui per le vostr’onte omai si toglia
che possa la sua cruda amara doglia
sfogar, poiché cosí agio non fate
ch’uscendo fuor con voi il mio dolore,
lasci l’albergo d’ogni nostro affetto;
perch’io, finché m’ha morto, in mezzo al petto
serbarlo vo’, se mai quel che m’avviva
potrá menarmi del mio corso a riva.
    Perché cadente omai è ’l ferreo mondo
e son giá instrutti a farci strazio i fati,
di pari con le colpe i nostri mali
crebber sugli altri delle prische etati
troppo altamente, poiché sotto il pondo
di novi morbi i gravi corpi e frali

314 ―

gemono smorti, ed a la tomba l’ali
il viver nostro ha piú preste e spedite,
e son sempre feconde le sventure
di sí fatte sciagure
non piú per nova o antica fama udite,
e dal pensier uman tanto lontane
che crederle men sa chi piú le prova:
talché sembra lo ciel che non piú accenda
benigno lume, onde qua giú discenda
un’alma lieta. Or chi cotanto strane
guise di mali intende mai per prova,
se potesse mirar qual è lo scempio
che di me fa mio destin fèro ed empio,
al suo, ch’or chiama avaro ed or crudele,
grazie sol renderia, non che querele.
    Di qualunque animal, quando primiero
a l’ime soglie del suo viver giunge,
lo ’nfocato vigor onde ha la vita,
con dolci nodi amici e’ si congiunge
a la sua salma; e un caso adverso e fèro,
o pur sia stella avara in darmi aita,
o natura dal suo corso smarrita,
di duo adversari me, lasso! compose:
il mio mortale infermo, afflitto e stanco,
ch’omai par venir manco,
strazia l’alma con pene aspre, noiose;
e ’l mio miglior, che d’egre cure abonda,
affligge ’l corpo con crudeli pesti;
e mentre, oimè! con pensier molto e spesso
me ’nterno a sentir me contro me stesso,
membro non ho ch’a l’anima risponda,
poiché non ho vertú che i sensi dèsti,
se non se ’n quanto mi si fan sentire
gli acerbi effetti de’ lor sdegni ed ire.
In sí misero stato e sí doglioso
va’, spera, se tu puoi, qualche riposo.

315 ―

    Ma ’l piacer fèro di dolermi sempre
parmi ch’alleggi in parte ’l mio cordoglio,
se del mio stato a lamentar mi mena;
ond’io, ch’a piú e a piú dolor me ’nvoglio,
farò, cantando con suavi tempre,
che pel contrario suo poggi mia pena.
Vita sovra ’l mortal corso serena,
moderati piacer, delizie oneste,
tesori per valor vero acquistati,
onori meritati,
mente tranquilla in abito celeste;
e, perché piú lo mio dolor s’avanzi,
talché null’altro mai fia che l’agguagli,
amor di cui è sol amor mercede,
e vicende gentil di fé con fede,
venite al tristo pensier mio dinanzi,
ch’e’ vi fará sembrar pene e travagli
a lo mio cor, perché di duol trabocchi,
sí come rossa gemma avanti gli occhi
posta talora, egli adivien che facci
rassembrar sangue il latte e fiamme i ghiacci.
    Rinfacciatemi or voi, s’unqua potete,
qualche vostro favor, stelle crudeli!
Ite, e ven prego, a ritrovarlo omai
entro quei moti de’ benigni cieli,
che ’nfluiscon qua giú gioie men liete.
Solo ben io da me so che non mai
bevvi respir, che non traessi guai.
Deh! perché da la vita altra beata,
stanco da tante alte sciagure e rotto,
misero, fui condotto
a la presente amara e disperata?
Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,
c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,
veggio esser nato per mia cruda sorte
solo a fiamme, sospir, lagrime e morte.

316 ―

E cosí crudi scempi e acerbi affanni
non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto.
Ah, che daranno tempo al fato rio
che meglio studi ’l precipizio mio;
se non è forse che la morte avara
tema col mio morir farsi piú amara!
    Mi venne sol da luminosa parte
del cielo una vaghezza di destare
a’ piè de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra
la bella luce che fa l’alme chiare,
ch’a la povera mia si spense in parte
quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra:
talché, d’alto stupor finor ingombra,
parea a se stessa dir: — Lassa! chi sono? —
Oimè! ch’a tal desio travaglio come
debbami dar il nome;
ma sempre ’l chiamerò pena e non dono,
se affligge piú chi piú conosce il male.
Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
cui sa ignoranza cagionar contenti,
ch’oblïati sudor, fatighe e stenti
acquetar vi sapete a un dono frale
o di poma o di latte over di fiori;
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;
né altra gioia a voi sembra che piaccia
che rozzo amore o faticosa caccia!
    Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso,
fra tanti strazi abbandonato e solo,
ne la misera mia vita che meno?
che fatto son noioso incarco al suolo,
anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso,
come in suo centro, han la lor quiete. Almeno
il mio piacer e’ fosse il venir meno;
ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo
sempre a novi sospiri e a pianti novi,

317 ―

piovi miserie, piovi
sovra ’l mio capo, empio destino acerbo;
e non voler meco mostrarti avaro
d’altri scempi piú infesti e piú nemici,
ch’i’ tua penuria e non pietá la stimo;
se non è forse invidia ch’i’ sia ’l primo
tra disperati e che mi renda chiaro
essempio di dolor agl’infelici.
Ma per le pene mie i’ giuro a queste
aspre selve, solinghe, orride e meste,
che non mai turberá, mentre respiro,
i lor alti silenzi un mio sospiro.
    Canzon, sola rimanti a pianger meco
dove serbo ’l dolor, né fra la gente
d’ir chiedendo pietate abbi vaghezza;
ché l’alto mio martír conforti sprezza.
Ma, se doglia compianta e’ men si sente,
sdegna ch’ancor tu resti a pianger seco
l’afflitto cor, che disperato vòle
che l’aspre pene sue si sentan sole.

318 ―

II
Giunone in danza
Per le nozze del principe della Rocca Giambattista Filomarino
con Maria Vittoria Caracciolo dei marchesi di Sant’Eramo.
(1721)

Io, de le nozze riverito nume,
che le genti chiamâro alma Giunone,
che, perché sotto il mio soave giogo
or due ben generose alme congiunga,
gentili cavalieri e chiare donne,
co’ prieghi umíli di potenti carmi
invocata, qua giú tra voi discendo;
e perché sotto il mio soave giogo
due alme al mondo sole or io congiunga,
menovi meco in compagnia gli dèi,
che ’nalzò sovra il ciel l’etade oscura,
con Giove mio consorte e lor sovrano.
Come? ben si convenne al secol d’oro
con semplici pastori e rozze ninfe
in terra conversare i sommi dèi,
e, ’n questo culto di civil costume
ed in tanto splendor d’alma cittade,
almeno per ischerzo, almen per gioco
vedersi in terra i dèi or non conviene?
Questa augusta magione
e d’oro e d’ostro riccamente ornata,
ove ’n copia le gemme, in copia i lumi
vibran sí vivi rai
qual le piú alte e le piú chiare stelle

319 ―

di cui s’ingemman le celesti logge,
s’albergare qua giú vogliono i dèi,
ov’alberghin i dèi non sembra degna?
e quell’argentee ed ampie mense, dove
l’arte emulando il nostro alto potere,
l’indiche canne e i favi d’Ibla e Imetto
presse di eletti cibi
in mille varie delicate forme,
le quai soavemente
si dileguan sui morsi,
si dileguan tra i sorsi,
non somiglian le nostre eterne, dove
bevesi ambrosia e nettare si mangia,
che quali noi vogliam dánno i sapori?
Tutto a questo simíl, dolce concento
di voci, canne e lire
risuonan di Parnaso
le pendici e le valli,
quando cantan le muse e loro in mezzo
tu tratti l’aurea cetra, o biondo Apollo.
Ma questi regi sposi,
de’ rari don del cielo
quant’altri mai ben largamente ornati,
di tai mortali onori
di gran lunga maggiori
degni pur son d’un nostro dono eterno;
onde adorniamo in essi
i nostri stessi eterni don del cielo.
I terreni regnanti,
che stanno d’ogni umana altezza in cima,
stiman sovente di salir piú in suso
scendendo ad onorare i lor soggetti;
e i terreni regnanti
son pur essi soggetti a’ sommi numi,
e, perché sol soggetti a’ sommi numi,
han stabilito i sommi regni in terra.

320 ―

Perché lo stesso a noi lecer non debbe?
che, perché onnipotenti,
credettero le genti
poter pur ciò ch’è ’n sua ragion vietato,
e fûr da noi sofferte
che credessero il tutto a noi permesso,
purché credesser noi poter ’l tutto
e sí le sciolte fiere genti prime
apprendesser, temendo,
dal divino potere
ogni umano dovere.
Del garzon dunque valoroso e saggio
che coll’alte virtudi
veracemente serba il nome antico,
che d’immortalitá risuona amante,
e de l’alta donzella,
di cui sovra uman corso
vien dal bel corpo la virtú piú bella,
ond’è a la terra e al ciel cotanto cara
che fatto ha sua natura il nobil nome,
omai l’inclite nozze
festeggiamo danzando, o sommi dèi;
e chi a menar la danza ha ben ragione,
l’auspice de le nozze ella è Giunone.
    Esci dunque in danza, o Giove,
ma non giá da Giove massimo,
di chi appena noi celesti
sostener possiam col guardo
il tuo gran sembiante augusto;
esci sí da Giove ottimo,
con quel tuo volto ridente,
onde il cielo rassereni
e rallegri l’ampia terra,
e dovunque sí rimiri,
fondi regni, inalzi imperi,
tal che ’l tuo guardo benigno

321 ―

egli è l’essere del mondo.
Deponi il fulmine
grave e terribile
anche a’ piú forti,
non che lo possano
veder da presso
queste che miri,
queste che ammiri
tenere donne
tanto gentili
e delicate.
Ti siegua l’aquila,
pur fida interprete
de la tua lingua,
con cui propizio
favelli agli uomini
e loro avvisi
palme e grandezze.
Anzi voglio, e non m’è grave
(ché gelosa io qua non venni),
che tu prenda quel sembiante
d’acceso amante
non di sterili sorelle,
ma di quelle
chiare donne
che di te diêro gli eroi;
e ’n sí amabile sembianza
esci pur meco, o sovran Giove, in danza.
        Il mio gran sposo e germano
    non giá in terra qui da voi,
    caste donne, i chiari eroi
    unqua adultero furò.
        Suo voler sommo e sovrano,
    che spiegò con gli alti auspíci,
    tra gli affetti miei pudici
    ei dal ciel gli eroi formò.

322 ―
        Porgi or l’una or l’altra mano
    a chi finse la gelosa,
    e d’eroi tal generosa
    coppia ben fia quanto da noi si può.
    E tu vaga, gentil, vezzosa dea,
alma bellezza de’ civili offici,
che son le Grazie che ti stan da presso,
e poscia i dotti ’ngegni t’appellâro
de le sensibil forme alma natura,
e una mente divina al fin t’intese
de l’intera bellezza eterna idea;
per Stige, non istar punto crucciosa
perché tu qui non empi il casto uficio,
qual ti descrisse pure a nozze grandi
un’impudica piú che dotta penna,
ché ’l mio (qual dee tra noi, pur regni il vero)
è sopra ’l tuo vie piú solenne e giusto,
poiché tu sembri (e sia lecito dirlo)
ch’a letti maritai solo presiedi
le licenze amorose a far oneste;
se de le proli poi nulla ti curi,
ma ben le proli io poi, Lucina, accoglio.
Quest’or mio dritto fia,
qual fu tuo dritto ne la gran contesa
dal regale pastor come piú bella
di riportarne il pomo: or piú non dico;
ché, quando del mio uficio si ragiona,
allor parlar non lice
d’altro che di concordia, amore e pace,
talché mi cadde giá da l’alta mente
il riposto giudizio;
anzi unirò co’ tuoi
tutti gli sforzi miei
pel tuo sangue troiano,
e l’imperio romano
per confin l’oceáno abbia e le stelle.

323 ―

Ti cingano
or le Grazie;
ti scherzino,
ti volino
d’intorno mille Amori,
e a le tue dive bellezze
dá’le forme piú leggiadre
di sorrisi, guardi, moti,
atti, cenni e portamenti,
qualor suoli quando Giove
vuolsi prendere piacere
di mirar la tua bellezza.
In tai guise elette e rare
esci, Venere, omai meco a danzare.
        Da questa dea
    prendete idea,
    o sposi chiari,
    o sposi cari;
        ché della vostra
    in questa chiostra
    piú bella prole
    non veda il sole;
        e a te di padre,
    a te di madre
    figli vezzosi
    rendano i nomi piú che mèl gustosi.
    E tu, gran dio del lume,
che nel cielo distingui al mondo l’ore,
e qua giú in terra sopra il sacro monte
presso il castalio fonte,
valor spirando al tuo virgineo coro,
fa’ i nomi de’ mortai chiari ed eterni;
memore io vivo pure
che, ’n buona parte a te debbo io le nozze,
sí che ’n gran parte a te debbo il mio regno,
che ’n quella senza leggi e senza lingue

324 ―

prima infanzia del mondo,
la téma, l’ira, il rio dolor, la gioia
con la lor vïolenza
insegnarono all’uom le prime note
di téma, d’ira, di dolor, di gioia,
qual pur or suole appunto,
da tali affetti tócco gravemente,
il vulgo, qual fanciul, segnar cantando;
indi le prime cose
che destassero piú lor tarde menti,
o le piú necessarie agli usi umani,
quai barbari fanciulli,
notâro con parole
di quante mai poi fûr piú corte ed aspre;
ed in quella primiera e scarsa e rada,
e, perché scarsa, rada lor favella,
eran le lingue dure,
non mobili e pieghevoli, com’ora
in questa tanta copia di parlari,
a’ quali ’n mezzo or crescono i fanciulli,
a proferir da émpito portati,
e a proferir da l’émpito impediti,
qual fanno i blesi, prorompean nel canto;
e, perch’eran le voci
corte, quai fûr le note poi del canto,
mandavan fuori per natura versi;
né avendo l’uso ancor di ragion pura,
i veementi affetti
soli potean destar le menti pigre,
onde credean che ’n lor pensasse il core.
Ed in quella che puoi
dir fanciullezza de l’umanitade
soli i sensi regnando e, perché soli,
ad imprimer robusti
ne l’umano pensiero
le imagini qual mai piú vive e grandi,

325 ―

e da la povertá de le parole
nata necessitá farne trasporti,
nata necessitá farne raggiri,
o mancando i raggiri e gli trasporti,
da evidenti cagioni o effetti insigni
o dalle loro piú cospicue parti
o d’altre cose piú ovvie ed usate,
co’ paragoni o simiglianze illustri
o co’ vividi aggiunti o molto noti,
s’ingegnâro a mostrar le cose istesse
con note propie de le lor nature,
che i caratteri fûr de’ primi eroi,
ch’eran veri poeti per natura
che lor formò poetica la mente,
e sí formò poetica la lingua;
ond’essi ritrovâr certe favelle,
che voglion dire favole minute
dettate in canto con misure incerte,
ed i veri parlari o lingue vere
gli uomin dianzi divisi unîro in genti
e le genti divise unîro a Giove,
ond’è il mio sommo Giove eguale a tutti;
e tal fu detto favellare eterno
degli uomini, de’ dèi, de la natura,
onde nefandi son, né mai pòn dirsi
ch’era in lor favellar, non mai pòn farsi
le madri mogli ed i figliuoi mariti.
E sí la forza de’ bisogni umani
e la necessitá scovrirgli altrui
e la gran povertá de le parole
e la virtú del ver comune a tutti,
che mostrò l’utiltade a tutti uguale,
destâro unite il tuo divin furore,
di che pieni que’ primi eroi poeti,
de’ quai fêro tra lor le greche genti
famosi personaggi o comun nomi

326 ―

celebri, Orfeo e Lino ed Anfione,
che coi lor primi carmi o prime leggi
primi sbandîro da le genti umane
ogni venere incerta e incestuosa;
e venne in sommo credito il mio nume,
ond’io presiedo a le solenni nozze,
le quai fêro solenni i divi auspíci
presi del ciel ne la piú bassa parte,
perché Giove piú sú balena a l’etra
fin dove osa volar l’aquila ardita.
E perché son le certe nozze e giuste
le prime basi degl’imperi e regni,
Giove egli è ’l re degli uomini e de’ dèi,
a cui ’l fulmine l’aquila ministra,
l’aquila assisa a’ regi scettri in terra
e del romano impero
alto nume guerriero;
ed io, di Giove alta sorella e moglie,
sí fastosa passeggio in ciel regina
e coi comandi d’aspre e dure imprese,
quante Alcide se ’l sa, pruovo gli eroi.
Questi tutti son tuoi gran benefíci,
de’ quali eterne grazie io ti professo.
Però, canoro dio,
per la tua Dafne, volentier sopporta
che la gran coppia de’ ben lieti sposi
non t’invídi Parnaso e ’l sacro coro,
ché quest’alma cittade,
fino da’ primi tempi degli eroi
patria de le sirene,
perpetuo albergo d’assai nobil ozio,
nutrí sempre nel sen muse immortali,
e pruove te ne fan troppo onorate
i Torquati, gli Stazi ed i Maroni.
Ma tu taci modesto or le tue pompe,
ma io grata, anzi giusta, or te l’addito;

327 ―

né a scernergli me ’l niega
con l’ombre sue la notte,
la qual, col nostro qui disceso lume
onde tu vai vie piú degli altri adorno,
vince qual mai piú luminoso giorno.
Colá stretti uniti insieme
vedo il rigido Capassi
col mellifluo Cirillo.
De le genti egli maggiori
quegli è ’l mio dotto Lucina,
con cui va fido compagno
il sempre vivo,
sempre spiegato,
sempre evidente,
Galizia nostro.
V’ha l’analitico
chiaro Giacinto;
e a chi il cognome,
provido il cielo,
diede d’Ippolito,
il cui costume
al casto stile
avea di questi
serbato il cielo.
Quegli, se rompe
cert’aspri fati,
sará ’l Marcello 52
d’un’altra Roma.
V’è pur colui
a cui nascendo
col caso volle
scherzare il fato,
e di Poeta

328 ―

diègli il cognome.
Quegli è l’Egizi,
ch’a lento piè
e con pia mano
cogliendo va
dotte reliquie
d’antichitá.
E, a quello unito,
d’un che s’asconde
agli altri tutti,
il qual tu, Febo,
spesso e ben vedi,
esce un bel nome,
che chiaro a tutti
suona Manfredi.
Stavvi ’l Rossi 53 meditante
alta impresa presso Dante:
una dolce e glorïosa
lá verdeggia nobil Palma;
e v’è un Dattilo sublime.
Ivi ’l Buoncore
coltiva l’erbe
di cui gli apristi
tu le virtudi;
e lá ’l Perotti
con nobil cura
e’ sta rimando
l’egra natura.
A le cose alte e divine
indi s’erge e spiega il volo
il gentil dolce Spagnolo.
Quei ch’è ’n sé tutto raccolto

329 ―

entro sua virtude involto
è ’l buon Sersale,
sempre a sé uguale;
e quell’altro egli è il Salerno,
in cui parlano i pensieri.
Quegli è ’l Luna54, dal cui frale
or la mente batte l’ale
su del ciel per l’alte chiostre
a spïar le stelle nostre.
Quello, al cui destro
omero aurata
pende una lira,
sembra un romano
Nobilïone;
e v’ha quel che la fortuna,
non giá il merto, il fa Tristano.
Ve’ ’l Valletta, l’onore
del suo nobil museo;
anche ’l Cesare ornato
del bel fiore di Torquato;
il leggiadro Cestari,
il Gennaio festivo,
il Viscini venusto,
pur l’adorno Corcioni,
il Forlosia dolciato
di mèl che timo odora,
il Mattei che valore
ha del nome maggiore,
e con atti modesti
l’amabil Vanalesti,
e ’l de’ tuoi sacri studi
vago Salernitano,

330 ―

e ’l di te acceso Puoti,
altro Rossi splendente
quanto l’ostro di Tiro.
Ma que’ che lieta accoglie
la Sirena sul lito,
l’un cui par che ’l petto aneli
ed a un tempo stesso gieli
tutto e bagni di sudore
sol la fronte, è ’l Metastasi,
pien del tuo divin furore,
a cui serve or senno ed arte;
l’altro è ’l Marmi teneruzzo.
Venuti anche tra questi
son da l’Attica tosca
in bel drappel ristretti,
bei tuoi pregi e diletti,
cento gentili spirti,
cinti di lauri e mirti.
È con questi il gran Salvini,
il qual presso al nobil Arno
è un’intera e pura e dotta
gran colonïa d’Atene,
che comanda a cento lingue
ed un gran piacer dimostra
d’ascoltar l’origin nostra.
Per onorar tanti pregiati ingegni,
ch’a nozze tanto illustri or fanno onore,
mastro divin de l’armonia civile,
che tu accordasti con le prime leggi,
e, perché son le leggi
mente d’affetti scevra
la qual qui scende agli uomini dal cielo,
le leggi poi stimate don del cielo
mastro ti fêr de l’armonia celeste;
ágiati al seno omai cotesta cetra,
c’hai finor tócco assiso agiata in grembo,

331 ―

e col piú vago e piú leggiadro vezzo
esci a danzare, o dotto Apollo, in mezzo.
        Tempra, Febo, l’aurea lira
    a’ bei numeri del piè,
    qual s’arretra o inoltra o gira
    o pur salto in aria die’.
        Di tua cetra il dolce suono
    l’aspre fère raddolcí,
    e di tua bell’arte è dono,
    perché l’uom s’ingentilí.
        Sí la venere ferina
    da le terre Orfeo fugò,
    e la cetra sua divina
    poscia ornata di stelle in ciel volò.
    Non ti mostrar sí schiva
e ritrosa, Dïana;
è sí ben la tua vita,
vita degna di nume,
menar l’etade eternamente casta
d’ogni viril contatto;
talché le sante membra
né men tocchi col guardo uomo giammai,
come pur d’Atteon, che n’ebbe ardire,
tu giá facesti aspra vendetta al fonte;
ma, se pur mai seguisse ogni donzella
i tuoi pudici studi,
non aresti or, o dea, chi t’offrirebbe
e vittime ed incensi in sugli altari.
Però Giove, che ’l regno
sopra ’l gener umano a noi conserva
onde ’l regno ben ha sopra di noi,
egli siegue un piacer dal tuo tutt’altro:
piacer che gli produce
ne l’ordine de’ dèi il nome augusto,
che ’l dal giovar creando è detto Giove,
che dal profondo nero sen del Cao

332 ―

trae fuor le cose in questa bella luce
sotto le varie lor forme infinite
de le quali fornisce e adorna il mondo,
e da tale suo studio
«padri» voi dèi, «madri» noi dèe siam dette.
E quindi avvien che, come Giove abborre
la rea confusïon de’ semi tutti,
che poi dissero «Cao» color che sanno,
cosí odia e detesta
la rea confusïon de’ semi umani,
che prima disser «Cao» le rozze genti.
Intendi, intendi pure
l’alte leggi del fato;
tu t’innalzasti in cielo,
perché Giove con teco e gli altri numi
serbasse in terra le virtú civili,
che pòn sole serbar la spezie umana:
ei comanda le nozze,
che madri son de le virtú civili,
ond’io, moglie di Giove,
le fo certi e solenni,
Venere, dolci, e tu le fai pudiche,
e ’n carmi ne dettò le leggi Apollo;
onde Imeneo sul Pindo a lui sacrato
nacque d’Urania che contempla il cielo,
e l’educâro le sue sacre muse,
che cotesta, che tu pregi cotanto,
eterna castitá vantano anch’elle.
Deh mira adunque,
deh mira intorno
con ciglio grato
tante matrone,
fide custodi
de l’alto sangue
di tante illustri
chiare famiglie,

333 ―

tra’ quai torreggia
la bella madre
del vago sposo55.
Né creder tutte
le tue seguaci
ch’abbiano in core
quel c’hanno in viso.
Vener te ’l dica
quai caldi voti
pur d’esse alcune
l’offron secreti.
Però non isdegnare
ch’eschi meco a danzare.
        In quest’aria vergognosa
    sí ti voglio, o casta diva,
    e mi piaci cosí schiva,
    che mi sembri tu la sposa.
        Come ben la castitade
    fa piú bella la bellezza!
    Prende piú che gentilezza
    un’amabile onestade.
        Cosí ’nsegna il tuo diletto
    ad amare e riverire;
    e cosí convien covrire,
    bella sposa, l’ardor che nutri in petto.
    Ma tu non tutta spieghi,
Marte, qui la tua fronte,
la qual sembra turbar cruccio importuno,
forse perché non tosto dopo Giove
e, se bene m’appongo, innanzi Giove,
io t’inchinai ch’uscissi a danzar meco?
In questa diva festa
celebrata in Italia, ognor feconda

334 ―

madre di saggi, prodi, invitti duci,
ne la cittá che sovra l’altre in grido
il publico inalzò genio guerriero,
per queste liete nozze
e d’una nobil sposa
il cui gran genitore
per raro valor d’arme è assai ben chiaro56,
e d’un sposo gentile,
il cui gran zio, che puoi tu dir gran padre,
nel mestiere de l’armi è assai ben noto57.

Mel. Id nempe ostendunt oris miracula nostris,
quod nostri rector veniat de sanguine divûm?
Iccirco alma Ceres tam laetas reddere messes
dignata? et Pomona refert tot munera ramis?
et Bacchus vites onerat praedulcibus uvis?

Dam. Quid dubitas? Redeant nobis saturnia regna,
iustitia atque pudor, sanctae pietasque fidesque,
nos ubi vir talis laetos tantusque gubernet,
cui divos atavos saturnia protulit aetas.

Mel. Quin spero; idque iubent et nomina et omina tanta.

Dam. Cras igitur prima quum Phoebus lampade terras
lustrabit, croceum madidumque cubile relinquens,
casti adeamus summi Panis templa biformis:
illius ac festa fronde exornabimus aras;
illius ante aras teneros mactabimus agnos.

358 ―

VI
1. — Di Agnello Spagnuolo al Vico

Per le nozze del duca di Canzano Andrea Coppola
con Laura Caracciolo dei marchesi dell’Amoroso (1725).

2. — Risposta del Vico

Spagnol pregiato, il nostro afflitto ingegno,
ch’a spïare si die’ l’antico vero
nel dritto d’ogni etá, d’ogni emispero,
che mi feo di tua laude ed onor degno;
    giá riportato ha ’l bel premio condegno
contro d’invidia il nero dente e fèro,
e ha fatto del lavoro il pregio intero,
incontro a cui e l’oro e l’ostro è indegno.
    Ma tu co’ bei pensier sublimi e rari,
che formi su disegno in ciel perfetto,
u’ vita meni in un divino stato,
    in tue rime ben culte adorna i chiari
sposi, e ’l gran padre, ché regal subietto
niegò a la nostra egra umil musa il fato.

359 ―

VII
1. — Di Roberto Sostegni al Vico

Per le stesse nozze.

2. — Risposta del Vico

A’miei sudor il ciel non temprò ingiuste
le leggi, se tal loda or ce ne rendi,
spirto gentil, che ’l mio nome raccendi
tra le dens’ombre de l’etá vetuste.
    Tu c’hai d’uom vero ambe le parti onuste,
poi ch’i desiri al primo Bene accendi
e i pensier dal disegno eterno prendi
che rado scende in nostre menti anguste,
    e tien del cuor di Febo ambe le chiavi,
de’ chiari sposi sui gran nomi in carte
tutto ben puoi versare il sacro fiume.
    Lascia pur me, da meste cure e gravi
ristretto in me medesmo, ire in disparte
con fievol canto e con dimesse piume.

360 ―

VIII
A Roberto Sostegni
Per la morte di Angela Cimmino marchesa della Petrella (1727).

Tornò al ciel la gran donna e saggia e forte,
che sol volle mostrarla al cieco mondo
mentre dal proprio abisso atro, profondo
crolla tra scosse di capriccio e sorte.
    Poiché ha le somme laudi or tutte assorte
de l’adulare altrui vil vezzo immondo,
quai via gittate senza scelta e pondo
son di virtude atro veneno e morte;
    questa di lei dirò picciola parte:
l’aura mancò, che m’innalzava al cielo,
Sostegni mio, per farmi a lei dappresso.
    Giaccion l’opre d’ingegno a terra sparte,
d’atra nebbia mi preme il terren velo,
fatto, non che ad altr’uom, grave a me stesso.

361 ―

2. — Risposta del Vico

Garzon sublime e pien d’animo grande,
che poche carte far questa etá d’oro
estimi e, come Circi altre, quai fôro
sopra il vulgo mostrar forze ammirande!
    Col tuon Giove forzò l’uom da le ghiande
ad ammirare il suo divin lavoro,
ché sugl’ingegni e le vaghezze loro
sol può chi ’l poter suo per tutto spande.
    Il divo Augusto perché ad onorarlo
Roma ebbe l’oceáno e ’l ciel confini,
chiaro feo da per tutto il padovano.
    Ah, dir non puoi: — Son pronti ad essaltarlo, —
perché l’autor, poi che scovrí la mano,
e’ si nascose a’ popoli vicini.

362 ―

2. — Risposta del Vico

Spirto gentil chiama mia gloria e vanto
d’invide menti vil freddo stupore,
che di ciò ch’io coltivo e ’nnaffio e pianto,
sullo spuntar aduggia ogni valore;
    né virtú d’erbe o d’apollineo canto
lor val punto a destar senso d’onore,
ché di sé spargon morte ed oblio tanto
per oscurar l’altrui lustro e chiarore.
    E si smarrisca l’erto aspro sentiero
de l’opre eccelse; senza scorta e duce,
chi stampar mai vi voglia orme divine?
    Ma tu con tua benigna e chiara luce
colá mi scorgi, e splenderonne altero
su le sagre di Pindo alte colline.

363 ―

2. — Risposta del Vico

Contro un meschino il Fato armossi, e ’n lui
sue cieche rabbie in altri unqua disperse
unío, e di venen atro il coverse
nel corpo e i sensi, egri suggetti sui.
    Ma Provvedenza, che suggette altrui
le sue menti non mai volle o sofferse,
quindi il menò per vie tutte diverse
a scovrir com’ell’abbia il regno in nui;
    e i fin spiegò di sue mirabil opre
sopra le genti, u’ tutta ferve ed arde,
ch’entro a’ ciechi suo’ abissi asconde e copre.
    E per tue laudi andrá giá fatto antico,
Pirelli, all’altre etá lontane e tarde
chiaro, in sua vita l’infelice Vico.

364 ―

2. — Risposta del Vico

Il cieco insano vulgo estima uom saggio
chi tra la turba sa mirar sé solo,
e sé inalzando da vil stato a volo,
corse mai di fortuna un gran vïaggio.
    Poiché nullo mi die’ di tal vantaggio,
la pietosa mia patria onoro e colo,
e traggo da mia sorte alto consuolo
che, perch’io giovo altrui, luogo non v’aggio.
    Severa madre non vezzeggia in seno
figlio, che ne fia poscia oscura e vile,
ma grave in viso ancor l’ode e rimira.
    Sí ’l mio fral, messo di ragione in freno,
la Provvedenza benedice e ammira,
ch’or mi fa degno di vostr’alto stile.

XIII
Per le nozze
del marchese di Casalbore Tommaso Caracciolo
con Ippolita di Dura dei duchi d’Erce (1731).

Bench’io mi veggia da quel fato oppresso
che l’ingiust’odio altrui creò sovente
e affatto lungi dalla molta gente
viva, che appena me trovi in me stesso;
    poiché il raro valor dal ciel concesso
a voi, bell’alme, unisce amor possente,
al pubblico piacer mio spirto sente
disio di riveder l’alto Permesso,
    e cantar lieto in dilettosa schiera
vostro nodo real, gli onor degli avi,
e svelar que’ futuri invitti germi.
    Poi ricaggio in me stesso e, da mie gravi
cure sospinto a tornar lá dov’era,
di me, non per mia colpa, ho da dolermi.

365 ―

XIV
A Gaetano Brancone

Per le nozze del principe di Sansevero Raimondo di Sangro con Carlotta Gaetani dei duchi di Laurenzana (1735).

Né corone né ostro o gemme ed auro
giamai mi ponno, o mio Brancon gentile,
rimenar il mio giá caduto aprile,
né qual serpe di nuovo al sol m’innauro.
    Hammi in Pindo aduggiato il verde lauro
ínvida nebbia, a rio tòsco simíle;
da la tremante man cade lo stile
e de’ pensier si è chiuso il mio tesauro.
    Ove manca natura, inferma è l’arte,
perché l’ingegno è ’l gran padre felice
di bell’opre ammirande, eccelse e chiare.
    A te, cui Febo ispira e nuove e rare
forme di laudi, d’allogar ben lice
la gran coppia da tutt’altre in disparte.

XV
Alla duchessa d’Erce Isabella Pignone del Carretto

Donna gentil, tra noi dal ciel discesa
per innalzar al ciel nostri desiri
e contemplar entro gli eterni giri
la bella idea, donde voi foste presa;
    se avversa sorte, al mio mal sempre intesa,
con piú venti crudel d’egri sospiri
non agitasse in mar d’aspri martíri
mia stanca nave combattuta e offesa;
    da tal subbietto qual alta immortale
verrebbe lode al mio non culto stile,
cantando in parte i vostri eccelsi pregi!
    Poiché manca l’ingegno a’ sforzi egregi,
resta il pensiero che v’inchini umíle
e onor vi faccia a le mie forze uguale.

366 ―

XVI
A Ferdinando Carafa
dei principi di Belvedere
autore del poema La santa fede, dedicato al conte di Santostefano
aio di re Carlo di Borbone.

Del fier, perduto mondo i primi vati,
che col vano timor di falsi numi
l’insegnâro civil leggi e costumi,
teologi fûr detti e celebrati.
    Tu, buon Fernando, con bei carmi ornati
di fé nostra spiegando i veri lumi,
non di Elicona ci fai nascer fiumi,
ma perenni dal ciel fonti beati,
    che ben consagri al gran Chirone ispano,
che ’l regal giovinetto eroe Borbone
casto formò, religïoso e pio;
    il cui esemplo è a’ soggetti acuto sprone
di coltivare un viver sovraumano
per amor dell’immenso ottimo Dio.