Risposta al Giornale dei Letterati di Venezia (I)
IV
POLEMICHE
relative
al DE ANTIQUISSIMA ITALORUM SAPIENTIA
—
1711‐2
II
Prima risposta del Vico
Osservandissimo signor mio,
Intorno al mio primo libroDe antiquissima Italorum sapientia ex linguae Latinae originibus eruenda, contenente la metafisica, Vostra Signoria, con quella autoritá che tiene sopra di me, mi propone tre importantissimi dubbi:
1. che desiderereste di veder provato ciò che a tutta l’opera è principal fondamento, anzi singolare: donde io raccolga che nella latina favella significhino una istessa cosa «factum» e «verum», «caussa» e «negocium»;
2. che vi date a credere che, nel compilare questo libricciuolo, io abbia avuto in pensiero di dare anzi un’idea ed un saggio della mia metafisica che la mia metafisica stessa;
3. che in essa scorgete cose moltissime, semplicemente proposte, che sembrano aver bisogno di pruova.
Io, con quella mia propria brevitá, non iscompagnata dalla riverenza che vi professo, vi rispondo:
1. che le locuzioni, fondamenti principali, anzi unici della mia metafisica, hanno appo i latini avuto i sentimenti che io dico;
2. che la mia metafisica in quel libricciuolo è compita sopra tutta la sua idea;
3. che non vi manca nulla di pruova.
i
Che le voci «verum» e «factum», «caussa» e «negocium»
significarono appo i latini due cose.
E, per quello che si appartiene alle prime due voci, Fedria, nell’Eunuco di Terenzio, domanda Doro:
Cherean tuam vestem detraxit tibi?
E questi risponde: — «Factum». —
Soggiunge il giovane padrone: — «Et ea est indutus?». —
E l’eunuco similmente risponde: — «Factum». — Che un italiano, nell’una e nell’altra risposta, tradurrebbe: «È vero».
Cremete, nelTormentator di se stesso, riprende il figliuol Clitifone:
Vel here in convivio quam immodestus fuisti?
E ’l siro, che finge andare a seconda del vecchio, conferma: — «Factum». —
Ma, perché potrebbesi qui dire che ne’ rapportati luoghi si ragiona di fatti, dove ben può stare «factum» per quello che noi dicemo «egli è succeduto», «avvenuto», o altro simigliante, arrechiam luogo de’ molti, dove si favella di cose, e «factum» non può altrimente prendersi che per «verum».
Lo Pseudolo di Plauto e Callidoro alternatamente ingiuriano il ruffiano Ballione; e questi sfacciatamente afferma esser tutte vere le ingiurie che gli si dicono.
Pseudolo.Impudice! Ballione. Ita est. Pseudolo. Sceleste! Ballione. Dicis vera. Pseudolo. Verbero! Ballione.Quippini? Calliodoro. Bustirape! Ballione. Certe. Calliodoro. Furcifer! Ballione. Factum optume!
Che niuno può altrimente intendere che: «È verissimo».
Ma, delle altre due, egli è tanto volgar latino che «caussa» e «negocium» significano la stessa cosa, che questo volgar nostro «cosa» non altronde viene che dal latino «caussa». Onde ciò, che noi esplichiamo per «cosa», i latini rendono in neutro genere; e noi dicemo, per cagion d’esempio, «buona cosa» ciocché i latini dicono «bonum», ove i gramatici suppliscono «negocium». Ma, perché altro è il parlar de’ grammatici, altro quel de’ latini, allo scevero che ne fa Fabio Quintiliano, per toglier di mezzo questa difficultá, andiamo da’ latini scrittori. I giurisconsulti, fedeli depositari della latina puritá fino a’ tempi piú corrotti, la prima idea, che formano nell’udire questa voce «caussa», ella è di «negozio», come l’avvertisce Giovan Calvino nel suoLessico. Onde la principal differenza, ch’essi insegnano a’ principianti tra il patto e ’l contratto, ella è che «contratto» è dove si contenga ilnegozio, ch’essi esplicano alcun fatto, come l’imprestito, la determinazione del prezzo alla mercatanzia o le sollennitá dell’interrogare e del rispondere; e perciò il mutuo, la vendita, la stipulazione siano contratti. Per contrario «patto» è quello chenegozio o fatto alcuno non contiene, ma è un semplice trattato di fare, come sono le promesse di dare in prestito, di vendere, di stipulare; e l’appellano essi «nude promesse» o «nudi patti», perché nudi di causa, nudi di negozio, nudi di fatto.
Ma potrebbe alcun dire queste esser voci d’arte riposta; e nostro proponimento fu di trarre l’antica sapienza d’Italia dalla favella volgar latina. Non resti non soddisfatto costui, e da innumerabili luoghi de’ comici, i cui parlari son volgarissimi, ne trasceglio quel di Terenzio nell’Andriana, dove a Panfilo, il quale dice Cremete contentarsi che Pasibula resti in sua moglie:
De uxore ita ut possedi, nihil mutat Chremes,
Cremete risponde: — «Caussa optima est». — Che noi renderemmo in lingua italiana: «il negozio, il partito è buonissimo». La piú sottil differenza, che si possa mai addurre fra queste due voci, è la rapportata da Quintiliano che «caussa» significa
ὑπόθεσιν, «negocium» περίστασιν; che tanto è dire quanto quella il «grosso del fatto», questa le «circostanze»: lo che non fa che la voce «caussa» non importi ciò che noi «negozio» appellamo.Credo giá, se io non vado errato, che abbastanza sincerato io mi sia per uomo che abbia punto di rossore, il quale tratti col mondo letterato con quella buona fede, alla quale è precisamente obbligato colui che ragiona e scrive senza addurre luoghi, testimoni ed autoritá; e cosí cotesto vostro dubbio potea riposare sul credito che intorno a ciò era vostra gentilezza di avermi.
ii
Che la nostra metafisica è compíta sopra tutta la sua idea.
Idea compíta di metafisica è quella nella quale si stabilisca l’ente e ’l vero, e, per dirla in una, il vero Ente, talché non solo sia il primo, ma l’unico Vero, la meditazion del quale ci scorga all’origine e al criterio delle scienze subalterne; e che questo unico Vero si fermi contro i dogmatici, se mai in altra cosa il ripongono, e contro gli scettici, che non ammettono vero alcuno; — vi si tratti dell’idee che empirono tutte le pagine della metafisica platonica, e degli universali, materia perpetua della metafisica aristotelica; — e, perché in questa scienza si va investigando la prima causa, vi si fondi quale la sia; — e, trattandovisi delle cose eterne ed immutabili, vi tenga il maggior e miglior luogo il ragionamento delle essenze e della sostanza, e vi si dimostri qual sia quella del corpo, quale quella della mente, e, sopra all’una e all’altra, qual sia la sostanza che tutto sostiene e muove. E, perché questa è la scienza che ripartisce i propri soggetti o le particolari materie a tutte le altre, da lei si derivino le prime definizioni nelle matematiche; i princípi nella fisica; le proprie facoltá, per usar bene la ragione, nella logica; l’ultimo fine de’ beni, per unirvisi, nella morale. Queste sono tutte le linee che abbozzano il disegno di una intera metafisica, nella quale, come per buona proporzion del disegno, richiedesi che, scrivendosi da cittadino di repubblica cristiana, le materie si trattino acconciamente alla cristiana religione.
Le origini delle voci volgari latine mi han messo avanti questo disegno, sopra il quale ho cosí meditato.
Primieramente stabilisco un vero che si converta col fatto, e cosí intendo il «buono» delle scuole che convertono con l’«ente», e quindi raccolgo in Dio esser l’unico Vero, perché in lui contiensi tutto il fatto; e per questo istesso Iddio è il vero Ente, ed a petto di lui le cose particolari tutte veri enti
non sono, ma disposizioni dell’Ente vero. E, facendo servire questa sapienza de’ gentili alla cristiana, pruovo che, perché i filosofi della cieca gentilitá stimarono il mondo eterno ed Iddio sempre operantead extra, essi convertivano assolutamente il vero col fatto. Ma, perché noi il credemo creato in tempo, dobbiamo prenderlo con questa distinzione: che in Dio il vero si convertaad intra col generato,ad extra col fatto; e che egli solo è la vera Intelligenza, perché egli solo conosce tutto, e che la divina Sapienza è il perfettissimo Verbo, perché rappresenta tutto, contenendo dentro di sé gli elementi delle cose tutte, e, contenendogli, ne dispone le guise o siano forme dall’infinito, e, disponendole, le conosce, ed in questa sua cognizione le fa. E questa cognizione di Dio è tutta laragione, della quale l’uomo ne ha una porzione per la sua parte (onde fu detto da’ latini «animal partecipe di ragione»); e per questa sua parte non ha l’intelligenza, ma lacogitazione del tutto, che tanto è dire noncomprende l’infinito, ma bene il puòandar raccogliendo.Formata questa idea di vero, a quella riduco l’origine delle scienze umane, e misuro i gradi della lor veritá, e pruovo principalmente che le matematiche sono le uniche scienze che inducono il vero umano, perché quelle unicamente procedono a simiglianza della scienza di Dio, perché si han creato in un certo modo gli elementi con definir certi nomi, li portano sino all’infinito co’ postulati, si hanno stabilito certe veritá eterne con gli assiomi, e, per questo lor finto infinito e da questa loro finta eternitá disponendo i loro elementi, fanno il vero che insegnano; e l’uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera talmente in quello con l’astrazione, come Iddio nell’universo con la realitá. Per la stessa via procedo a dar l’origine e ’l criterio delle altre scienze e dell’arti.
Quindi confuto non giá l’analisi, come voi ragguagliate, con la quale il Cartesio perviene al suo primo vero. Io l’appruovo, e l’appruovo tanto, che dico anche i Sosi di Plauto, posti in dubbio di ogni cosa da Mercurio, come da un genio fallace, acquetarsi a quello «sed quom cogito, equidem sum». Ma dico
che quel «cogito» è segno indubbitato del mio essere; ma, non essendo cagion del mio essere, non m’induce scienza dell’essere.Poi mi volgo contro gli scettici, e li meno lá dove gli sforzo a confessare darsi la comprensione di tutte le cause, dalle quali provengono gli effetti che sembra loro vedere: la qual comprensione delle cagioni tutte io pongo per primo vero.
Passo quindi a ragionare de’ generi o guise o modificazioni o forme, come si voglian dire, e delle specie o simulacri o apparenze, come appellar le volete; e pruovo forme metafisiche esser le guise con le quali ciascheduna cosa particolare è portata all’attual suo essere da’ suoi princípi, fin donde da prima si mossero e da ogni parte onde si mossero. E cosí la guisa vera di ciascheduna cosa è da rivocarsi a Dio; e per conseguenza i generi sono non per universalitá, ma per perfezzione infiniti; e questo essere il brieve e vero senso del lungo ed intricatoParmenide di Platone; e questo intendimento doversi dare alla famosa «scala delle idee», onde i platonici pervengono alle perfettissime ed eterne. Confermo ciò dagli effetti, numerando strettamente i beni che le idee, i mali che gli universali portano all’umano sapere. Pruovo che le forme fisiche sono formate dalle metafisiche; e, poste al paragone, queste vere, quelle false si truovano; queste simulacri ed apparenze, quelle salde ed intere. Ma, perché gl’impronti portano evidenza di sé, raziocinio di ciò che significano: perciò, mentre io considero la mia forma particolare posta nel mio pensiero, non ne posso dubitare in conto alcuno; ma, addentrandomi nella forma metafisica, truovo esser falso che io penso e che in me pensa Dio; e cosí intendo in ogni forma particolare esser l’impronto di Dio. Ma, riflettendo che i generi sono nelle scuole detti «materia metafisica», osservo esser ciò detto sapientemente, se il detto in questo sentimento si prenda: che la forma metafisica consista in esser nuda di ogni forma particolare, cioè a dire che ella riceva tutte le particolari forme con tutta la faciltá ed acconcezza; e quindi raccoglio la forma a cui debba il saggio conformar la sua mente.
Prosieguo il cammino e pruovo che vera, anzi unica causa è quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno,
come quella la qual contiene dentro sé gli elementi delle cose che produce, e gli dispone, e sí ne forma e comprende la guisa, e, comprendendola, manda fuori l’effetto. Questa definizione della causa, non istabilita in metafisica, ha fatto cader molti in moltissimi errori, che hanno opinato Dio oprar come un fabro e le cose create esser d’altre cose cagioni, e non piú tosto parti delle guise che comprende la mente eterna di Dio. Ma non è da trallasciarsi quello: che, per non essersi considerata la vera causa, comunemente sono stimate le matematiche essere scienze contemplative, né pruovar dalle cause; quando esse sole tra tutte sono le vere scienze operatrici e pruovano dalle cause, perché, di tutte le scienze umane, esse unicamente procedono a simiglianza della scienza divina.Infin qua si è formato il capo della nostra metafisica: ora succede il corpo, per cosí dire, ed entro nel vasto campo dell’«essenze», e col lume delle veritá geometriche, acceso al fonte d’ogni lume dell’umano sapere, dico la metafisica, fo vedere l’essenza (perocché il nulla non può cominciare né finire ciò che è, e ’l dividere è in certo modo finire), fo vedere, dico, l’essenza consistere in una sostanza indivisibile, e che altro non è che una indefinita virtú o uno sforzo dell’universo a mandar fuori e sostener le cose particolari tutte; talché l’essenza del corpo sia una indefinita virtú di mantenerlo disteso, la quale a cose distese, quantunque disugualissime, vi sia sotto egualmente; e questa istessa sia indefinita virtú di muovere, che egualmente sta sotto a moti quanto si voglia inuguali; la qual virtú eminentemente è atto in Dio. Onde proviene che con somma proporzione si corrispondano, quinciDio,materia ecorpo; quindiquiete,conato emoto; e Iddio, atto semplicissimo, perché tutto perfezzione, gode vera quiete; la materia è potenza e sforzo; i corpi, perché costano di materia che in ogni punto e, in conseguenza, in ogni istante si sforza, e, impedendosi l’un l’altro gli sforzi per la continuitá delle parti, si muovono: talché moto altro non è che sforzo impedito, che, se esplicar si potesse, anderebbe nell’infinito a quietarsi, e sí ritornerebbe a Dio, donde è uscito. Per tutto ciò la sostanza dagli antichi filosofi
italiani, in quanto è virtú di sostenere il disteso, fu detta «punctum»; in quanto di sostenere il moto, «momentum»: l’uno e l’altro da essi preso per una cosa stessa, eper unacosa stessa indivisibile. Ed in sí fatta guisa vendico alla filosofia d’Italia ipunti di Zenone, e li sincero da’ sinistri sentimenti dati loro da Aristotele, seguitato in ciò da Renato; e gli fo vedere essere di gran lunga altra cosa da quella che finora è stata intesa: che non giá il corpo fisico costi di punti geometrici (onde fu ricevuta con tanto credito l’obbiezzione: «Punctum additum puncto non facit extensum»); ma, come il punto geometrico, perché è stato definito non aver parti, ci dá le dimostrazioni che le linee altrimente incommensurabili si tagliano eguali ne’ loro punti; cosí in natura siavi una sostanza indivisibile, che egualmente sta sotto a’ saldi stesi inuguali: talché il punto geometrico sia un esempio o somiglianza di questa metafisica virtú, la quale sostiene e contiene il disteso, e perciò da Zenone fu «punto metafisico» nominata; peroché, con questa similitudine, e non altrimente, possiamo ragionare dell’essenza del corpo, perché non abbiamo altra scienza umana che quella delle matematiche, la qual procede a simiglianza della divina.La serie di queste cose mi mena a ragionare de’ «momenti» e de’ «moti», per quanto a metafisico s’appartiene. E pruovo nonisforzarsi le cose stese, ma bensí muoversi; perché i punti sono i princípi de’ moti, e i princípi de’ moti sono i momenti.
Che non si diano moti retti in natura, ma che gli sforzi siano a’ moti retti, e che i moti sono composti di sforzi a’ retti. E immaginare i corpi muoversi drittamente per lo vano, è di mente imbevuta dell’errore degli spazi imaginari; perché non solo non si moverebbero a dirittura nel vano, ma non si moverebbero, anzi non sarebbero affatto, perché in tanto i corpi costano e sono corpi, in quanto l’universo col pieno suo gli sostiene, nel pieno suo gli contiene.
Che in natura non si dia quiete, perché gli sforzi sono la vita della natura, e ’l conato non è quiete.
Finalmente,che i moti non si comunicano; perché, essendo il moto corpo che si muove, il comunicarsi i moti sarebbe
quanto che i corpi si penetrassero; e ’l fingere il corpo mosso portarsi dietro, tutto o in parte, il moto del corpo movente, è molto piú che finger l’attrazzione.Ragionato della «sostanza distesa» e del «moto», passo alla «cogitante», e tratto dell’«anima» o della vita, dell’«animo» o sia del senso, e dell’aria o etere, detta da’ latini «anima»; e pruovo che l’aere del sangue è il veicolo della vita, quel de’ nervi del senso; e che non giá (come ragguagliate) il moto de’ nervi si debba al sangue, ma il moto del sangue a’ nervi, dovendosi al cuore, che è un intiero muscolo e un’opera reticolata, moltiforme d’innumerabili nervicciuoli.
Tento che l’opinione dell’anima de’ bruti fosse conosciuta ed approvata dagli antichi filosofi d’Italia, che appellarono «brutum» l’immobile.
Ragiono dellasede dell’animo, cioè dove principalmente faccia i suoi uffici, e l’allogo nel cuore.
Cosí, compíta la dottrina dell’una e dell’altra sostanza, passo a vedere della mente o sia del pensiero; e qui noto Malebrance, che vuole Iddio creare in noi l’idee, che è tanto dire quanto che Iddio pensa in noi, e dá nel primo Vero di Renato, ed ammette per vero che «ego cogito». Ragiono della libertá dell’arbitrio umano e della immutabilitá de’ divini decreti, e come insieme compongansi.
Come appendici di queste cose mi si offeriscono lefacultá dell’animo; ed essendo la facultá una prontezza di operare, ne raccolgo che l’animo con ciascuna facultá si faccia il suo proprio soggetto: come i colori col vedere, gli odori col fiutare, i suoni con l’udire, e cosí delle altre.
Ragiono dellamemoria e dellafantasia, e fermo che sono una medesima facultá.
Poi, derivando da sí fatti princípi la particolar facultá del sapere, dico esser loingegno, perché con questa l’uomo compone le cose, le quali, a coloro che pregio d’ingegno non hanno, sembravano non aver tra loro nessun rapporto. Onde l’ingegno umano nel mondo delle arti è, come la natura nell’universo è l’ingegno di Dio. Con ciò discorro delle tre operazioni della
mente umana, e do tre arti per regolarle: topica, critica e metodo: «arti», io dissi, e non «facultá» (come voi ragguagliate), perché la facultá è quella che è indrizzata, regolata ed assicurata dall’arte. E qui, del metodo ragionando, propongo i vantaggi della sintesi sopra l’analisi, perché quella insegna la guisa di far il vero, questa va tentone trovandolo.Finalmente mi fermo in contemplare ilsommo Facitore; e fo vedere che lo sia «Nume», perché col cenno o, per meglio dire, con l’istantaneo operare vuole, col fare parla: talché le opere di Dio sono i suoi parlari, che dissero «Fati»; con le uscite delle cose fuor della nostra opinione, è «Caso»; e, perché tutto ciò che fa è buono per l’universo, è «Fortuna».
E da questa metafisica fo sparsamente vedere qualmente la geometria e l’aritmetica ne prendono certi finti indivisibili: quella ilpunto che si disegna, e questa l’uno che si multiplica: sopra le definizioni de’ quali due nomi la matematica appoggia tutta la gran mole delle sue dimostrazioni.
Similmente la meccanica ne ha preso l’indivisibil virtú del muovere, ilmomento o ilconato; e, fingendolosi ne’ particolari corpi, vi innalza sopra le sue macchine.
La fisica ne prendei punti metafisici, cioè l’indivisibil virtú dell’estensione e del moto; e da’ punti e da’ momenti per termini di meccanica, o sia di macchine, procede a trattare del suo proprio soggetto, che è il corpo mobile.
La morale ne prende l’idea dellaperfetta mente delsaggio: che sia informe d’ogni particolare idea o suggello, e che con la contemplazione e con la pratica dell’umana vita si meni come pasta, e si renda mollissima, per cosí dire, a ricevere facilmente gl’impronti delle cose con tutte le ultime lor circostanze. Onde provenga quella indifferenza attiva del saggio, quella capacitá in comprendere molti e diversi affari, quella destrezza nell’operare, quel giudizio delle cose secondo il loro merito, e finalmente quel dire e quel fare cosí proprio, che, per quanto altri vi pensi, non possa piú acconciamente né dir né fare; onde tanto si commendano i detti e i fatti memorabili degli uomini sapienti.
Da questi stessi princípi di metafisica si asserisce e si conferma la veritá alle matematiche, e si esplica la cagione perché gli uomini communemente si acquetano alle sue dimostrazioni; perché in quelle essi sono l’intera causa degli effetti che operano, essi comprendono tutta la guisa come operano, e sí fanno il vero in conoscerlo.
E da questi stessi princípi, e non altronde, nasce la ragione onde gli uomini pur si acquetano a quella fisica, la quale fa vedere le cose meditate con gli sperimenti, che ci diano apparenze simili a quelle che ci dá la natura: sicché la fisica si contenta delle apparenze, delle quali la metafisica sa le cagioni; e la razional meccanica, promossa da fior d’ingegno, si studia lavorarvi le simiglianze.
Ma, quel che sopra ogni altra cosa piú importa, serve alla teologia cristiana, nella quale professiamo un Dio tutto scevero da corpo, nel quale tutte le virtú delle particolari cose si contengono, e in lui sono purissimo atto, perché egli solo è atto infinito, ed in ogni cosa finita, quantunque menoma, mostra la sua onnipotenza; onde è tutto in tutto, e tutto in quanto si voglia menoma parte del tutto.
Questo è il ristretto, o, per meglio dire, lo spirito della nostra metafisica, tutto brievemente compreso, senza far bisogno ch’il ristretto uguagli la mole del libro. Dal quale ogni dotto può agevolmente fare adeguato concetto, come tutte le cose cospirino in un sistema di metafisica giá compiuta; e non, con un mozzo e confuso ragguaglio, porre altri, che non han letto il mio libricciuolo, in opinione che la sia piú tosto un’idea. Oltreché, dovean ritenervi a fare cotal giudizio le «innumerabili speculazioni, di che — voi medesimo dite — ogni linea, non che pagina essere affoltata»; e che dove io ho speso tanti pensieri, io non abbia avuto in animo darne un disegno, che, quantunque vasto, si può con poche linee abbozzare, ma che io abbia in effetto voluto dare un’opera giá compíta. E mi perdoni pure che, senza che io il meriti, Ella mi tratti da uomo, che con titoli magnifici voglia destare la curiositá ne’ dotti, e poi fraudare la loro espettazione. Ma, cheché siane stata di ciò
la cagione, io devo e voglio, particolarmente con voi, pregiatissimo signor mio, prenderla in buona parte, e che a voi, per la picciolezza del libricciuolo, sia paruta un’idea. Ma era pur vostro il considerare che gli scrittori utili alla repubblica delle lettere si riducono a due sorti. Una è di coloro che vogliono giovare la gioventú; ed a costoro è necessario esplicar le cose da’ primi termini, esporre spianatamente le altrui opinioni, e rapportarne tutte le ragioni appuntino, o per fondarsi in quelle o per confutarle; indi addurre alcuna cosa del loro in mezzo, e farne vedere tutte le conseguenze, e raccôrne sino agli ultimi corollari. E questi sono i voluminosi; e, in rapportargli, è lecito, anzi debito trasandare moltissime cose, cioè dire, tutto l’altrui. Altri sono che non vogliono gravare l’ordine de’ dotti di piú fatica, né obbligargli che, per leggere alcune poche lor cose, abbiano a rileggere le moltissime che hanno giá lette in altrui; e costoro mandan fuori alcuni piccioli libricciuoli, ma tutti pieni di cose proprie. Io sonmi studiato essere in questa seconda schiera: se l’abbia conseguito, il giudizio è de’ dotti. Se non pure, perché il soggetto della nostra metafisica sono i punti metafisici, e voi avrete stimato poco o nulla appartenervi, onde nel ragguaglio ve ne passate seccamente, dicendo: «ragiona de’ punti metafisici», né altra parola ne fate; perciò a voi forse avrá paruto un’idea. Ma in questa maniera che io fo, parlano gli uomini, non le cose; del che ormai punto non mi diletto: onde volentieri passo al terzo vostro dubbio.iii
Che niuna cosa proposta manca di pruova.
Voi dite che vi sono moltissime cose che vi sembrano aver bisogno di pruova. È il giudizio in termini troppo generali; e gli uomini gravi non hanno mai di risposta degnato, se non le particolari e determinate opposizioni che loro sono fatte. Con tutto ciò, per l’onore in che devo avervi, voglio far la ricerca, e vedere delle moltissime incontrarne qualcuna.
Un luogo può esser quello: che ciò che contiene gli elementi delle cose, e le guise come son fatte, e in conseguenza le cose stesse, non pruovasi che sia mente; ed un gentile filosofo potrebbe dire che lo sia un infinito corpo moventesi.
Ma a costui sta risposto lá dove dico che, siccome l’uno, virtú del numero, genera il numero e non è numero; cosí il punto, virtú dell’estensione, fa il disteso, né è disteso. Al qual esempio or io aggiungo che ’l conato, virtú del moto, produce il moto, né però è moto.
Ma replicherá costui: non aver altra idea che di estensione e di moto; e prima dell’estensione ha idea del suo pensiero, peroché il pensiero sia il moto particolare che ’l costituisca nell’esser uomo; e perciò non poter ragionare delle altre cose per altri princípi che di estensione e di moto.
E pure a ciò sta risposto ove notammo che tanto Aristotile pecca in trattare la fisica metafisicamente per potenze ed infinite virtú, quanto Renato, che tratta fisicamente la metafisica per atti e per forme finite. E la ragion dell’errore d’entrambi è una: perché amendue trattarono delle cose con regola infinitamente sproporzionata. Perciò Zenone non portò a dirittura l’una nell’altra, ma vi frappose la geometria, che sola è quella scienza che tratta infiniti ed eterni finiti, e col suo aiuto ne ragionò. Perché l’essenza è una ragion d’essere: il nulla non può cominciare né finir ciò che è, e in conseguenza nol può dividere, perché il dividere è in un certo modo finire. Dunque
l’essenza del corpo consiste in indivisibile; il corpo tuttavia si divide: dunque l’essenza del corpo corpo non è: dunque è altra cosa dal corpo. Cosa è dunque? è una indivisibil virtú, che contiene, sostiene, mantiene il corpo, e sotto parti disuguali del corpo vi sta egualmente; sostanza, della quale è solamente lecito ragionare per princípi di quella scienza umana che unicamente si assomiglia alla divina, e perciò unica a dimostrare l’umano vero. Per questa via tentando ragionarne il gran Galileo nel primoDialogo della scienza nuova, dalle amenissime dimostrazioni, che ne fa, è costretto a prorompere in sí fatte parole: «Queste son quelle difficoltá che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agl’infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate: il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minoritá ed egualitá non convenghino agl’infiniti, de’ quali non si può dire uno esser maggiore o minore o eguale dell’altro». E, poco innanzi, ingenuamente confessa perdersi «tra gl’infiniti e gl’indivisibili». Mirò Galileo la fisica con occhio di gran geometra, ma non con tutto il lume della metafisica, e perciò stimò l’indivisibile altro dall’infinito, e parla di piú infiniti. Non sono piú infiniti, ma uno in tutte le sue finite parti, quanto si voglia inuguali, uguale a se stesso. Uno è l’indivisibile, perché uno è l’infinito, e l’infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi, non potendo dividerlo il nulla.Qui appunto costui mi aspetterá, come al varco, e risponderammi che tutto ciò ben si avvera in un corpo infinito; e che lo sia indivisibile, perché non vi sia vano o vuoto in che divider si possa.
E questo varco pure è stato innanzi osservato da noi: perché, quantunque ci abbandoniamo nella vasta fantasia d’un infinito corpo, però il corpo di un picciolissimo granello d’arena non è infinito, e pure contiene una virtú infinita di estensione; per la quale voi, dividendolo, andarete all’infinito. Questo è quel che io dissi, dove ragiono che Aristotile sconviene da Zenone in cose diverse, conviene nel medesimo: egli parla di divisione
del corpo, che è moto ed atto; Zenone parla di virtú, per la quale ogni corpicciuolo corrisponde ad una estensione infinita. Dividete attualmente un granello d’arena: sempre vi resta a dividere; ma parla ciò che non pensa colui che per ciò dica: — Il granello di arena è un corpo d’infinita estensione e grandezza; — perché all’idea del granello sta attaccata una picciola estensione, e l’idea di una estensione indefinita è tutta ingombrata dall’universo. Questo è quel che io dico in piú luoghi: che sono mal consigliati coloro i quali le cose formate voglion far regola delle informi. Ma allo incontro è parlare alle cose conforme, il dire: — Nel granello di arena vi ha una cotal cosa, che, dividendo voi tuttavia quel picciolo corpicello, vi dá e vi sostiene una infinita estensione e grandezza; sí che la mole dell’universo nel corpo del granello di arena non vi è in atto, ma in potenza, in virtú. — Questo io medito esser lo sforzo dell’universo: che sostiene ogni picciolissimo corpicciuolo, il quale non è né l’estensione del corpicciuolo, né l’estensione dell’universo. Questa è la mente di Dio, pura di ogni corpolenza, che agita e muove il tutto.Ma costui persisterá, dicendo aver piú evidenza del pensiero e dell’estensione che di qualunque dimostrazion geometrica; e, in conseguenza, queste idee dover esser regola di tutto l’umano sapere.
Ed a ciò sta risposto ancora, ove si è detto che ’l conoscere chiara e distintamente è vizio anziché virtú dell’intendimento umano; ed ove si è pruovato che le forme fisiche sono evidenti, finché non si pongono al paragone delle metafisiche; ed ove questo istesso si è confirmato, che, finché considero me, son certissimo che, «se io penso, ci sono», ma, addentrandomi in Dio, che è l’unico e vero Ente, io conosco veramente non essere. Cosí, mentre consideriamo l’estensione e le sue tre misure, stabiliamo nel mondo dell’astrazzioni veritá eterne; ma in fatti
Caelum ipsum petimus stultitia,
perché solamente l’eterne veritá sono in Dio. Tenemo a conto d’eterna veritá «il tutto è maggior della parte»; ma, ritornati a’ princípi, ritroviamo falso l’assioma, e vediamo dimostrata
tanta virtú di estensione nel punto del cerchio, per cagion d’esempio, quanta ve ne ha in tutta la circonferenza, attraversando linee per lo centro, che da tutti i punti della circonferenza siano menate. Conchiudiamla: in metafisica colui avrá profittato, che nella meditazione di questa scienza abbia se stesso perduto.Sará forse altro luogo quello ove non sembri pruovata la libertá dell’umano arbitrio, posta l’infallibilitá de’ divini decreti. Ma non devo stimarlo del vostro grande ingegno, che, in leggendo lá dove io pruovo che i moti non si communicano, non abbia facilmente avvertito una simiglianza come ciò possa stare, poiché d’incomprensibil misterio non possiamo ragionare altrimente. Onde credo bene ch’Ella agevolmente abbia rapportato ciò, che ragiono de’ movimenti de’ corpi, a quel degli animi; e, come il movimento comune dell’aria diventa proprio e vero moto della fiamma, della pianta, della bestia, mercé delle particolari macchine onde ciascuna di queste cose particolari ha la propria sua forma; cosí il divin volere diventa proprio e vero moto della nostra volontá, mercé dell’anima nostra, che è la forma particolare di ciascun di noi: talché ogni nostro volere sia insiememente vero e proprio nostro arbitrio e decreto infallibile del sommo Iddio.
Ma a ciò par che contrasti quel che i latini sentirono de’ bruti, che gli vollero «immobili».
In risposta potrei dire che gli dissero «immobili», perché gli guardarono come mossi dall’aria, e non come moventisi da sé, ma, per quello che abbiamo poc’anzi ragionato, non perché mossi dall’aria, si toglie loro il muoversi per se stessi. Io però non entro a sostenere cotal sentenza, che i piú fidi interpreti della mente del Cartesio stimano essere una bellissima favola e solamente da commendarsi per l’acconcezza della sua tessitura.
Ma certamente a voi avrá paruto proposto e non provato che i corpi non si sforzano. E vi avrá a ciò spinto la comune de’ cartesiani, che pongono per prima base della loro fisica «i corpi sforzarsi andar lontani dal centro».
Ma uno è lo sforzo dell’universo, perché dell’universo, ed è l’indivisibile, centro che non è lecito truovare nell’universo,
e che, dentro le linee della sua direzzione, tutti i disuguali pesi sostenendo con egual forza, tutte le particolari cose sostiene insiememente ed aggira1. Questa è la sostanza che si sforza mandar fuori le cose per le vie piú convenevoli alla sua somma potenza, le brevissime, le rette; ed, impedita dalla continuitá de’ corpi, gli muove in giro; e, dovunque e comunque può esplicare la sua attivitá, forma proporzionata diastole e sistole, per la quale le cose tutte hanno le loro forme particolari: tanto che non è de’ corpi lo sforzo allontanarsi dal centro, ma è del centro sostenere a tutta sua possa le cose. Ma i meccanici s’han finto questo conato ne’ corpi, perché niuna scienza bene incomincia se non dalla metafisica prende i princípi, perché ella è la scienza che ripartisce alle altre i loro propri soggetti, e, poiché non può darle il suo, dá loro certe immagini del suo. Onde la geometria ne prende il punto, e ’l disegna; l’aritmetica l’uno, e ’l moltiplica; la meccanica il conato, e l’attacca a’ corpi: ma, siccome né il punto che si disegna è piú punto, né l’uno che si moltiplica è piú uno, cosí il conato de’ corpi non è piú conato.Io non so ad altro pensare. Se non forse voi dubbitate di quello: come l’essenza sia metafisica e l’esistenza fisica cosa.
Confesso in veritá non averlo dedotto da’ princípi della latina favella; ma egli in fatti da que’ princípi deriva. Perché «existere» non altro suona che «esserci», «esser sorto», «star sovra», come potrei pruovarlo per mille luoghi di latini scrittori. Ciò che è sorto, da alcuna altra cosa è sorto; onde l’esser sorto non è proprietá de’ princípi. E per l’istessa cagione non la è lo star sovra; perché il sovrastare dice altra cosa star sotto, e i princípi non dicono altra cosa piú in lá di se stessi. Per contrario, l’essere è proprietá de’ princípi, perché l’essere non può nascer dal nulla. Dunque sapientemente gli scrittori della bassa latinitá dissero, ciò che sta sotto, «sostanza», nella quale noi abbiamo riposto la vera essenza. Ma in quella proporzione che la sostanza tiene ragion di essenza, gli attributi tengono quella
dell’esistenza. L’essenza noi pruovammo esser materia metafisica, cioè virtú. Dunque può ciascun per sé trarne le conseguenze: la sostanza è virtú; gli attributi sono esistenza ed atti della virtú.E qui non posso non notare che con impropri vocaboli Renato parla, ove medita: «Io penso, dunque sono». Avrebbe dovuto dire: «Io penso, dunque esisto»; e, presa questa voce nel significato che ci dá la sua saggia origine, avrebbe fatto piú brieve cammino, quando dalla sua esistenza vuol pervenire all’essenza, cosí: «Io penso, dunque ci sono». Quel «ci» gli avrebbe destato immediatamente questa idea: «Dunque vi ha cosa che mi sostiene, che è la sostanza; la sostanza porta seco l’idea di sostenere, non di essere sostenuta; dunque è da sé; dunque è eterna ed infinita; dunque la mia essenza è Iddio che sostiene il mio pensiero». Tanto importano i parlari, de’ quali sieno stati autori i sapienti uomini, che ci fan risparmiare lunghe serie di raziocini. E per queste istesse ragioni egli è da notarsi ancora, quando dall’esistenza sua vuole inferire l’esistenza di Dio. Impropriamente esplica la sua pietá; perché da ciò, che io esisto, Dio non esiste, ma è: e per li nostri ragionati princípi di metafisica l’esistenza mia si truova falsa, quando si è pervenuto da quella a Dio: perché ella non è in Dio, a ragione che l’esistenza delle create cose è essenza in Dio. Iddio non ci è, ma è; perché sostiene, mantiene, contiene tutto; da lui tutto esce, in lui tutto ritorna.
Questa è la ricerca che, per soddisfarvi, ho fatto delle moltissime cose che a voi sembrano aver bisogno di pruova. Non so vedere le altre: priegovi a farmene accorto, ma insiememente a considerare queste tre cose:
1. che per «vera cagione» intendo quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno;
2. che la guisa, onde ciascuna cosa si forma, si ha a ripetere onde furono mossi gli elementi da prima e da tutte le parti dell’universo;
3. che la virtú è lo sforzo del tutto, col quale manda fuori e sostiene ogni cosa particolare.
Veda non le vostre difficultá tutte si possano sciogliere, con farsi da capo ad una o a tutte e tre queste definizioni, e poi le mi scriva. E divotamente vi riverisco.