decorative images of Past Masters authors

SUBSCRIBER:


past masters commons

Annotation Guide: Link to Annotation Guide.

cover image for this title
Giambattista Vico: Opere
cover image for this title
VII: Scritti Vari e Pagine Sparse
Body
II. Piccoli Scritti Filosofici e Critici
II. Le Accademie e i rapporti tra la filosofia e l’eloquenza

II. Le Accademie e i rapporti tra la filosofia e l’eloquenza

II
Le Accademie e i rapporti
tra la filosofia e l’eloquenza

Discorso pronunciato nella quarta inaugurazione annua dell’Accademia degli Oziosi radunata in casa di don Nicola Salerno dei baroni di Lucignano

(gennaio 1737)

Questo nome «Accademia», che abbiamo preso da’ greci per significare un comune d’uomini letterati uniti insieme affin di esercitare gl’ingegni in lavori di erudizione e dottrina, egli sembra che con piú propietá di origine non si convenga ad altra che a questa nobilissima ragunanza. Imperciocché le altre o sono state istituite per recitarvi discorsi d’intorno a’ singolari problemi appesi all’arguta bilancia di contrapposti, o per disaminarvi particolari argomenti o di lingue o di esperienze. Ma l’Accademia fondata da Socrate era un luogo dov’egli con eleganza, con copia, con ornamenti ragionava di tutte le parti dell’umano e divin sapere, siccome in questa è ordinato che gli accademici con colte, abbondanti ed ornate dissertazioni vadano scorrendo tutto l’ampio campo della sapienza. Talché quest’accademia può dirsi quella dove Socrate ragionava.

Un tale ordinamento reca primieramente quella grandissima utilitá: che, quantunque i gentili spiriti, i quali vi si radunano, essi o per diletto overo per professione sieno applicati ad un particolare studio di lettere, però in sí fatti congressi

34 ―
vengonsi col tempo a fornire di tutte le cognizioni che fan bisogno ad un sappiente compiuto. Di poi, ciò che importa assaissimo, vi si ricompongono col lor natural legame il cuore e la lingua, che Socrate,

pien di filosofia la lingua e ’l petto,

teneva strettamente congionti insieme. Perché fuori della di lui scuola si fece quel violento divorzio: che i sofisti esercitarono una vana arte di favellare, e i filosofi una secca ed inornata maniera d’intendere. Però gli altri greci filosofanti, come di una nazione quanto mai dire o immaginar si possa dilicata e gentile, scrissero in una lingua la quale, come un sottilissimo puro velo di molle cera, si stendeva sulle forme astratte de’ pensieri che concepivano; e, quantunque ne’ loro filosofici ragionamenti avessero rinnonziato all’ornamento e alla copia, però conservarono l’eleganza.

Ma, ritornandosi a coltivare le filosofie in mezzo alla piú robusta barbarie, dandovi cominciamento Averroe col commentare le opere di Aristotele, vi s’introdussero una sorta di parlari ciechi affatto di lume, non che privi di ogni soavitá di colore, una maniera sazievole di ragionare, perché sempre l’istessa della forma sillogistica, e un portamento neghittosissimo, dando i numeri tutto l’ordine a’ loro discorsi con quelli «Praemitto primo», «Praemitto secundo», «Obiicies primo», «Obiicies secundo». Tanto che, se io non vado errato, porto opinione che, [se] ne’ nostri tempi l’eloquenza non sia rimessa nel lustro de’ latini e de’ greci, quando le scienze vi han fatto progressi uguali e forse anche maggiori, egli addivenga perocché le scienze s’insegnano nude affatto d’ogni fregio dell’eloquenza. E, con tutto che la cartesiana filosofia abbia emendato l’error dell’ordine in che peccavano gli scolastici, riponendo tutta la forza delle sue pruove nel metodo geometrico, però egli è cosí sottile e stirato che, se per mala sorte si spezza in non avvertire ad una proposizione, è niegato affatto a chi ode d’intender nulla del tutto che si ragiona.

35 ―

Ma dall’Accademia di Platone, che avea udito per ben otto anni, uscí Demostene, ed uscinne armato del suo invitto entimema, ch’egli formava con un assai ben regolato disordine, andando fuori della causa in lontanissime cose, delle quali temprava i fulmini de’ suoi argomenti, i quali, cadendo, tanto piú sbalordivano gli uditori quanto da essolui erano stati piú divertiti. E dalla stessa Accademia Cicerone professa essersi arricchito della felice sua copia, che, a guisa di gran torrente d’inverno, sbocca dalle rive, allaga le campagne, rovina balze e pendici, e, rotolando pesanti sassi ed annose quercie, trionfante di tutto ciò che fecegli resistenza, si ritorna al propio letto della sua causa.

Né a difesa del nostro poco spirito, per questo istesso che affettiamo d’essere tutto spirito, giova punto risponder quello: che Demostene e Cicerone regnarono in repubbliche popolari, nelle quali, al dir di Tacito, vanno del pari l’eloquenza e la libertá. Perché quell’eloquenza, che aveva Cicerone usato nella libertá, poscia adoperò appresso Cesare, fatto signore di Roma, a pro di Quinto Ligario: nella qual causa gli tolse dalle mani, assoluto, quel reo che ’l dittatore, in entrando nel Consiglio, si era apertamente professato di condannare, dicendo quelle parole: «Nunquam hodie tam bene dixerit Cicero, quin Ligarius e nostris manibus effugiat». E nel Cinquecento, nel quale si celebrò una sapienza ben parlante, cosí Giulio Camillo Delminio fece venire le lagrime sugli occhi di Francesco i re di Francia con l’orazione che gli disse per la liberazione di suo fratello, come monsignor Giovanni della Casa commosse l’imperador Carlo v con quella dettagli per la restituzion di Piacenza. E pure l’orazione a pro di Ligario è la piú gloriosa di tutte l’altre di Cicerone, nella quale egli trionfò con la lingua di chi con l’armi avea trionfato del mondo: e dell’altre due recitata l’una ad un grandissimo re, l’altra ad un chiarissimo imperadore, quella è una regina, e questa l’imperatrice delle orazioni toscane.

Or, per raccogliere il detto in brieve, voi, signori, con maestrevole accorgimento adoperate di praticare quel precetto

36 ―
di Orazio, che, ristretto in tre versi, contiene tutta l’arte cosí in prosa come in versi di ben parlare:

Scribendi recte sapere est et principium et fons:

perché non vi è eloquenza senza veritá e degnitá, delle quali due parti componesi la sapienza.
Rem tibi socraticae poterunt ostendere chartae:

cioè gli studi della morale, che principalmente informano il sapere dell’uomo, nella quale, piú che nell’altre parti della filosofia, Socrate fu divinamente applicato; onde di lui fu detto: «Moralem philosophiam Socrates de coelo revocavit».
Verbaque provisam rem non invita sequentur:

per lo natural legame onde noi dicemmo essere stretti insieme la lingua e ’l cuore, perocché ad ogni idea sta naturalmente la sua propia voce attaccata, onde l’eloquenza non è altro che la sapienza che parla.

Sono scorsi ormai ben tre anni che questa nobile accademia, in questo riguardevol luogo dal gentilissimo signor don Niccolò Salerni onorevolmente accolta, fu istituita e, con lo stesso fervore col quale ha incominciato, felicemente prosiegue, contro il maligno corso della stolta fortuna, la quale le belle imprese attraversa, e soventi fiate ne’ primi lor generosi sforzi invidiosa opprime. Or in quest’anno la vostra generositá, sopra ogni mio merito, mi ha voluto ed ordinato custode e collega del signor di Canosa, nobilissimo fregio di cui questo comune si adorna, avendovi creato censore il signor don Paolo Doria, mente di rari e sublimi lumi e, per le molte opere di filosofia e di mattematica, celebratissimo tra’ dotti di questa etá; e, per colmarmi di sommo e sovrano onore, mi ha comandato che io vi facessi l’anniversaria apertura. Laonde, raccolte tutte le mie potenze in un pensiero di altissima riverenza, dettandomi la formola il gran padre Agostino, sotto

37 ―
la cui protezione quest’accademia sta rassegnata, concepisco questo voto con queste solenni e consegrate parole: — Odi, umilmente ti priego, odi, non favolosa Minerva, Sapienza eterna, generata dal divin capo del vero Giove, l’onnipotente tuo Padre. Oggi in tua lode, in tuo onore, in tua gloria si riapre questo quarto anno accademico: lo che sia a perfezione di questi ben nati ingegni, poiché la sapienza è la perfezionatrice dell’uomo nel suo propio esser d’uomo, ch’è mente e lingua.
39 ―