SUBSCRIBER:


past masters commons

Annotation Guide:

cover
Giambattista Vico: Opere
cover
V: L’Autobiografia, Il Carteggi, E Le Poesie Varie
Body
I. Autobiografia
II Aggiunta fatta dal Vico alla sua Autobiografia. (1731)

II Aggiunta fatta dal Vico alla sua Autobiografia. (1731)

Uscita alla luce la Scienza nuova, tra gli altri ebbe cura l’autore di mandarla al signor Giovanni Clerico ed eleggé via piú sicura per Livorno, ove l’inviò, con lettera a quello indiritta 9, in un pachetto al signor Giuseppe Attias, con cui aveva contratto amicizia qui in Napoli, il piú dotto riputato tra gli ebrei di questa etá nella scienza della lingua santa, come il dimostra il Testamento vecchio con la di lui lezione stampato in Amsterdam, opera fatta celebre nella repubblica delle lettere. Il quale con la seguente risposta 10 ne ricevé gentilmente l’impiego:

Non saprei esprimere il piacere da me provato nel ricevere l’amorevolissima lettera di V. S. illustrissima del 3 novembre, la quale mi ha rinovato la rimembranza del mio felice soggiorno in cotesta amenissima cittá: basta dire che costá mi trovai sempre colmo di favori e di grazie compartitemi da quei celebri letterati, e particolarmente dalla gentilissima sua persona, che mi ha onorato delle sue eccellenti e sublimi opere; vanto ch’io mi son dato con gli amici della mia conversazione e letterati che doppo ho praticato ne’ miei viaggi d’Italia e Francia 11. Manderò il pacchetto e lettera

56 ―
del signor Clerico, per fargliele recapitare in mano propria da un mio amico di Amsterdam; ed allora averò adempito i miei doveri ed eseguito i pregiati comandi di Vostra Signoria illustrissima, alla di cui gentilezza rendo infinite grazie per l’essemplare mi dona, il quale si è letto nella nostra conversazione, e ammirato la sublimitá della materia e copia di nuovi pensieri, che, come dice il signor Clerico [che doveva egli aver letto nell’accennata Biblioteca 12], oltre il diletto e proffitto che se ne ricava da tutte le sue opere lette attentamente, dá motivo di pensare a molte cose per raritá e sublimitá peregrine e grandi. Chiudo pregandola a portar i miei ossequiosi saluti al padre Sostegni.

Ma neppure 13 di questa il Vico ebbe alcuno riscontro, forse perché il signor Clerico o fusse morto o per la vecchiezza avesse rinnonziato alle lettere ed alle corrispondenze letterarie.

Tra questi studi severi non mancarono al Vico delle occasioni di esercitarsi anco negli ameni; come, venuto in Napoli il re Filippo quinto, ebbe egli ordine dal signor duca d’Ascalona, ch’allora governava il Regno di Napoli, portatogli dal signor Serafino Biscardi, innanzi sublime avvocato, allora regente di cancellaria, ch’esso, come regio lettore d’eloquenza, scrivesse una orazione nella venuta del re; e l’ebbe appena otto giorni avanti di dipartirsi, talché dovettela scrivere sulle stampe, che va in dodicesimo col titolo: Panegyricus Philippo V Hispaniarum regi inscriptus>.

Appresso, ricevutosi questo Reame al dominio austriaco, dal signor conte Wirrigo di Daun, allora governatore dell’armi cesaree in questo Regno, con questa onorevolissima lettera ebbe il seguente ordine:

Molto magnifico signor Giovan Battista di Vico, catedratico ne’ reali Studi di Napoli. — Avendomi ordinato S. M. cattolica

57 ―
(Dio guardi) di far celebrare i funerali alli signori don Giuseppe Capece e don Carlo di Sangro con pompa proporzionata alla sua reale magnificenza ed al sommo valore de’ cavalieri defonti, si è commesso al padre don Benedetto Laudati, priore benedettino, che vi componesse l’orazione funebre, e dovendosi fare gli altri componimenti per le iscrizioni, persuaso dello stile pregiato di Vostra Signoria, ho pensato di commettere al suo approvato ingegno tale materia, assicurandola che, oltre l’onore sará per conseguire in sí degna opera, mi resterá viva la memoria delle sue nobili fatiche. E desiderando d’essergli utile in qualche suo vantaggio, gli auguro dal cielo tutto il bene. Di Vostra Signoria, molto magnifico signore,

Da questo Palazzo in Napoli, a 11 ottobre 1707

(di propia mano)

affezionato servidore
Conte di Daun.

Cosí esso vi fece l’iscrizioni, gli emblemi e motti sentenziosi e la relazione di que’ funerali, e ’l padre prior Laudati, uomo d’aurei costumi e molto dotto di teologia e di canoni, vi recitò l’orazione, che vanno in un libro figurato in foglio, magnificamente stampato a spese del real erario col titolo: Acta funeris Caroli Sangrii et Iosephi Capycii.

Non passò lungo tempo che, per onorato comando del signor conte Carlo Borromeo viceré, fece l’iscrizioni ne’ funerali che nella real cappella si celebrarono per la morte di Giuseppe imperadore.

Quindi l’avversa fortuna volle ferirlo nella stima di letterato; ma, perché non era cosa di sua ragione, tal avversitá fruttògli un onore, il qual nemmeno è lecito desiderarsi da suddito sotto la monarchia. Dal signor cardinale Wolfango di Scrotembac, viceré, ne’ funerali dell’imperadrice Elionora fu comandato di fare le seguenti iscrizioni, le quali esso concepí con tal condotta che, sceverate, ognuna vi reggesse da sé e, tutte insieme, vi componessero una orazion funerale. Quella che

58 ―
doveva venire sopra la porta della real cappella, al di fuori, contiene il proemio:

Helionorae augustae — e ducum neoburgensium domo — Leopoldi caes. uxori lectissimae — Carolus VI Austrius roman. imperator Hispan. et Neap. rex — parenti optimae — iusta persolvit — reip. hilaritas princeps — luget — huc — publici luctus officia conferte — cives.

La prima delle quattro ch’avevano da fissarsi sopra i quattro archi della cappella, contiene le lodi:

Qui oculis hunc tumulum inanem spectas — re mente inanem cogita — namque inter regiae fortunae delicias fluxae voluptatis fuga — in fastigio muliebris dignitatis sui ad imam usque conditionem demissio — inter generis humani mortales cultus aeternarum rerum diligentia — quae — Helionora augusta defuncta — ubique in terris iacent — heic — supremis honoribus cumulantur.

La seconda spiega la grandezza della perdita:

Si digni in terris reges — qui exemplis magis quam legibus — populorum ac gentium corruptos emendant mores — et rebuspp. civilem conservant felicitatem — Helionora — ut augusti coniugii sorte ita virtute — foemina in orbe terrarum vere primaria — quae uxor materque caesarum — vitae sanctimonia imperii christiani beatitudini — pro muliebri parte quamplurimum contulit — animitus eheu dolenda optimo cuique iactura!

La terza desta il dolore:

Qui summam — ex Carolo caesare principe optimo — capitis voluptatem — cives — ex Helionora eius augusta matre defuncta — aeque tantum capiatis dolorem — quae felici foecunditate — quod erat optandum — ex Austria domo vobis principem dedit — et raris ac praeclaris regiarum virtutum exemplis — quod erat maxime optandum — vobis optimum dedit.

La quarta ed ultima porge la consolazione:

Cum lachrymis — nuncupate conceptissima vota — cives — ut — Helionorae — recepta coelo mens — qualem ex se dedit Leopoldo — talem ex Elisabetha augusta Carolo imp. — a summo Numine — impetret sobolem — ne sui desiderium perpetuo amarissimum — christiano terrarum orbi — relinquat.

59 ―

Sí fatte iscrizioni poi non si alzarono. Però, appena era passato il primo giorno de’ funerali, che il signor don Niccolò d’Afflitto, gentilissimo cavaliere napoletano, prima facondo avvocato ed allora auditor dell’esercito (e privava appo ’l signor cardinale, la quale gran confidenza, con le grandi fatighe, portògli appresso la morte, che fu da tutti i buoni compianta), egli volle in ogni conto dal Vico che la sera si facesse ritruovare in casa per fargli esso una visita, nella quale gli disse queste parole: — Io ho lasciato di trattare col signor viceré un affare gravissimo per venir qua, ed or quindi ritornerò in Palazzo per riattaccarlo; — e tra ’l ragionare, che durò molto poco, dissegli: — Il signor cardinale mi ha detto che grandemente gli dispiaceva questa disgrazia che vi è immeritevolmente accaduta. — Allo che questi rispose che rendeva infinite grazie al signor cardinale di tanta altezza d’animo, propia di grande, usata inverso d’un suddito, la cui maggior gloria è l’ossequio verso del principe.

Tra queste molte occasioni luttuose vennegli una lieta nelle nozze del signor don Giambattista Filomarino, cavaliere di pietá, di generositá, di gravi costumi e di senno ornatissimo, con donna Maria Vittoria Caracciolo de’ marchesi di Sant’Eramo; e nella raccolta de’ Componimenti per ciò fatti, stampata in quarto, vi compose un epitalamio di nuova idea, ch’è d’un poema dramatico monodico col titolo di Giunone in danza, nel quale la sola Giunone, dea delle nozze, parla ed invita gli altri dèi maggiori a danzare, e a proposito del subbietto ragiona sui princípi della mitologia istorica che si è tutta nella Scienza nuova spiegata.

Sui medesimi princípi tessé una canzone pindarica, però in verso sciolto, dell’Istoria della poesia, da che nacque infino a’ dí nostri, indirizzata alla valorosa e saggia donna Marina Della Torre, nobile genovese, duchessa di Carignano.

E qui lo studio de’ buoni scrittori volgari ch’aveva fatto giovine, quantunque per tanti anni interrotto, gli diede la facultá, essendo vecchio, in tal lingua come di lavorare queste poesie cosí di tessere due orazioni, e quindi di scrivere con

60 ―
isplendore di tal favella la Scienza nuova. Delle orazioni la prima fu nella morte di Anna d’Aspromonte contessa di Althan, madre del signor cardinale d’Althan, allora viceré; la qual egli scrisse per esser grato ad un beneficio che avevagli fatto il signor don Francesco Santoro, allora segretario del Regno. Il qual, essendo giudice di Vicaria civile e commessario d’una causa d’un suo genero, che vi si trattò a ruote giunte, ove, due giorni di mercordí l’uno immediato all’altro (ne’ quali la Vicaria criminale si porta nel regio Collateral Consiglio a riferire le cause), il signor don Antonio Caracciolo marchese dell’Amorosa, allor regente di Vicaria (il cui governo della cittá per la di lui interezza e prudenza piacque a ben quattro signori viceré), per favorire il Vico, a bella posta vi si portò; a cui il signor Santoro la riferí talmente piena, chiara ed esatta, che gli risparmiò l’appuramento de’ fatti, per lo quale sarebbesi di molto prolungata e strappata dall’avversario la causa. La qual esso Vico ragionò a braccio con tanta copia, che contro un istrumento di notaio vivente vi ritruovò ben trentasette congetture di falsitá, le quali dovette ridurre a certi capi per ragionarla con ordine e, in forza dell’ordine, ritenerle tutte a memoria. E la porse cosí tinta di passione, che tutti quei signori giudicanti per loro somma bontá non solo non aprirono bocca per tutto il tempo ch’egli ragionava la causa, ma non si guardarono in faccia l’uno con l’altro; e nel fine il signor regente sentissi cosí commuovere che, temprando l’affetto con la gravitá propia di sí gran maestrato, diede un segno degnamente mescolato e di compassione inverso il reo e di disdegno contro l’attore: laonde la Vicaria, la qual è alquanto ristretta in render ragione, senza essersi pruovata criminalmente la falsitá, assolvette il convenuto.

Per tal cagione il Vico scrisse la orazione sudetta, che va nella raccolta de’ Componimenti che ne fece esso signor Santoro, stampata in quarto foglio. Dove, con l’occasione di due signori figliuoli di sí santa principessa i quali s’impiegarono nella guerra fatta per la successione della monarchia di Spagna, vi fa una digressione con uno stile mezzo tra quello della prosa

61 ―
e quello del verso (qual dee essere lo stile istorico, secondo l’avviso di Cicerone nella brieve e succosa idea che dá di scriver la storia, che deve ella adoperare «verba ferme poëtarum», forse per mantenersi gli storici nell’antichissima loro possessione, la quale si è pienamente nella Scienza nuova dimostrata, che i primi storici delle nazioni furono i poeti); e la vi comprende tutta nelle sue cagioni, consigli, occasioni, fatti e conseguenze, e per tutte queste parti la pone ad esatto confronto della guerra cartaginese seconda, ch’è stata la piú grande fatta mai nella memoria de’ secoli, e la dimostra essere stata maggiore. Della qual digressione il principe signor don Giuseppe Caracciolo de’ marchesi di Sant’Eramo, cavaliero di gravi costumi e saviezza e di buon gusto di lettere, con molta grazia diceva voler esso chiuderla in un gran volume di carta bianca, intitolato al di fuori: Istoria della guerra fatta per la monarchia di Spagna.

L’altra orazione fu scritta nella morte di donna Angiola Cimini marchesana della Petrella, la qual valorosa e saggia donna, nelle conversazioni che ’n quella casa sono onestissime e ’n buona parte di dotti uomini, cosí negli atti come ne’ ragionamenti insensibilmente spirava ed ispirava gravissime virtú morali e civili; onde coloro che vi conversavano erano, senz’avvedersene, portati naturalmente a riverirla con amore ed amarla con riverenza. Laonde, per trattare con veritá e degnitá insieme tal privato argomento: «ch’ella con la sua vita insegnò il soave‐austero della virtú», il Vico vi volle fare sperienza quanto la dilicatezza de’ sensi greci potesse comportare il grande dell’espressioni romane, e dell’una e dell’altro fusse capace l’italiana favella. Va in una raccolta in quarto foglio ingegnosamente magnifica, dove le prime lettere di ciascun autore sono figurate in rame, con emblemi ritruovati dal Vico ch’alludono al subietto. Vi scrisse l’introduzione il padre don Roberto Sostegni, canonico lateranense fiorentino, uomo che e per le migliori lettere e per gli amabilissimi costumi fu la delizia di questa cittá; nel quale peccando di troppo l’umor della collera (che fecegli spesso mortali infermitá, e finalmente d’un ascesso

62 ―
fattogli nel fianco destro cagionògli la morte, con dolore universale di tutti che l’avevano conosciuto), egli l’emendava talmente con la sapienza che sembrava naturalmente esser mansuetissimo. Egli dal chiarissimo abate Anton Maria Salvini, di cui era stato scolare, sapeva di lingue orientali, della greca e molto valeva nella latina, particolarmente ne’ versi; nella toscana componeva con uno stile assai robusto alla maniera del Casa, e delle lingue viventi, oltre alla francese, ora fatta quasi comune, era inteso dell’inghilese, tedesca ed anche alquanto della turchesca; nella prosa era assai raziocinativo ed elegante. Portossi in Napoli con l’occasione, come pubblicamente per sua bontá il professava, d’aver letto il Diritto universale, che ’l Vico aveva mandato al Salvini; onde conobbe ch’in Napoli si coltiva una profonda e severa letteratura, e ’l Vico fu il primo che volle esso conoscere, con cui contrasse una stretta corrispondenza, per la quale or esso l’ha onorato di quest’elogio.

Circa questi tempi il signor conte Gianartico di Porcía, fratello del signor cardinale Leandro di Porcía, chiaro uomo e per letteratura e per nobiltá, avendo disegnato una via da indirizzarvi con piú sicurezza la gioventú nel corso degli studi, sulla vita letteraria di uomini celebri in erudizione e dottrina; egli tra’ napoletani che ne stimò degni, ch’erano al numero di otto (i quali non si nominano per non offender altri trallasciati dottissimi, i quali forse non erano venuti alla di lui cognizione), degnò d’annoverare il Vico, e con orrevolissima lettera scrittagli da Vinegia, tenendo la via di Roma per lo signor abate Giuseppe Luigi Esperti, mandò al signor Lorenzo Ciccarelli l’incombenza di proccurarlagli. Il Vico, tra per la sua modestia e per la sua fortuna, piú volte niegò di volerla scrivere; ma alle replicate gentil’istanze del signor Ciccarelli finalmente vi si dispose. E, come si vede, scrissela da filosofo; imperocché meditò nelle cagioni cosí naturali come morali e nell’occasioni della fortuna; meditò nelle sue, ch’ebbe fin da fanciullo, o inclinazioni o avversioni piú ad altre spezie di studi ch’ad altre; meditò nell’opportunitadi o nelle travversie onde fece o ritardò i suoi progressi; meditò, finalmente, in certi suoi sforzi

63 ―
di alcuni suoi sensi diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni sulle quali lavorò l’ultima sua opera della Scienza nuova, la qual appruovasse tale e non altra aver dovuto essere la sua vita letteraria.

Frattanto la Scienza nuova si era giá fatta celebre per l’Italia, e particolarmente in Venezia, il cui signor residente in Napoli di quel tempo avevasi ritirato tutti gli esemplari ch’erano rimasti a Felice Mosca, che l’aveva stampata, con ingiognergli che quanti ne potesse piú avere, tutti gli portasse da essolui, per le molte richieste che ne aveva da quella cittá, laonde in tre anni era divenuta sí rada che un libretto di dodici fogli in dodicesimo fu comperato da molti due scudi ed ancor di vantaggio; quando finalmente il Vico riseppe che nella posta, la qual non solea frequentare, erano lettere a lui indiritte. Di queste una fu del padre Carlo Lodoli de’ Minori osservanti, teologo della serenissima repubblica di Venezia, che gli avea scritto in data de’ 15 di gennaio 1728, la qual si era nella posta trattenuta presso a sette ordinari. Con tal lettera egli lo invitava alla ristampa di cotal libro in Venezia nel seguente tenore:

Qui in Venezia con indicibil applauso corre per le mani de’ valentuomini il di lei profondissimo libro de’ Princípi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, e piú che ’l van leggendo, piú entrano in ammirazione e stima della vostra mente che l’ha composto. Con le lodi e col discorso andandosi sempre piú diffondendo la fama, viene piú ricercato, e, non trovandosene per cittá, se ne fa venire da Napoli qualch’esemplare; ma, riuscendo ciò troppo incomodo per la lontananza, son entrati in deliberazione alcuni di farla ristampar in Venezia. Concorrendo ancor io con tal parere, mi è parso proprio di prenderne innanzi lingua da Vostra Signoria, che è l’autore, prima per sapere se questo le fosse a grado, poi per veder ancora se avesse alcuna cosa da aggiungere o da mutare, e se compiacer si volesse benignamente comunicarmelo.

Avvalorò il padre cotal sua richiesta con altra acclusa alla sua del signor abate Antonio Conti nobile veneto, gran

64 ―
metafisico e mattematico, ricco di riposta erudizione e per gli viaggi letterari salito in alta stima di letteratura appo il Newton, il Leibnizio ed altri primi dotti della nostra etá, e per la sua tragedia del Cesare famoso nell’Italia, nella Francia, nell’Inghilterra. Il quale, con cortesia eguale a cotanta nobiltá, dottrina ed erudizione, in data degli 3 di gennaio 1728 14 cosí gli scrisse:

Non poteva Vostra Signoria illustrissima ritrovare un corrispondente piú versato in ogni genere di studi e piú autorevole co’ librari di quel che sia il reverendissimo padre Lodoli, che le offre di far stampare il libro dei Princípi di una Scienza nuova. Son io stato un de’ primi a leggerlo, a gustarlo e a farlo gustare agli amici miei, i quali concordemente convengono che dell’italiana favella non abbiamo un libro che contenga piú cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali della spezie loro. Io ne ho mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere a’ francesi che molto può aggiungersi o molto correggersi sull’idee della cronologia e mitologia, non meno che della morale e della iurisprudenza, sulla quale hanno tanto studiato. Gl’inglesi saranno obligati a confessare lo stesso quando vedranno il libro; ma bisogna renderlo piú universale con la stampa e con la comoditá del carattere. Vostra Signoria illustrissima è a tempo di aggiungervi tutto quello stima piú a proposito, sia per accrescere l’erudizione e la dottrina, sia per isviluppare certe idee compendiosamente accennate. Io la consiglierei a mettere alla testa del libro una prefazione ch’esponesse i vari princípi delle varie materie che tratta e ’l sistema armonico che da essi risulta, sino ad estendersi alle cose future, che tutte dipendono dalle leggi di quell’istoria eterna, della qual è cosí sublime e cosí feconda l’idea che ne ha assegnata 15.

65 ―

L’altra lettera, che giaceva pur alla posta, era del signor conte Gian Artico di Porcía da noi sopra lodato, che da’ 14 dicembre 1727 li aveva cosí scritto:

Mi assicura il padre Lodoli (che col signor abate Conti riverisce Vostra Signoria e l’un l’altro l’accertano della stima ben grande che fanno della di lei virtú) che ritroverá chi stampi la di lei ammirabile opera de’ Princípi della Scienza nuova. Se Vostra Signoria volesse aggiungervi qualche cosa, è in pienissima libertá di farlo. Insomma Vostra Signoria ha ora un campo di poter dilatarsi in tal libro, in cui gli uomini scienziati affermano di capire da esso molto piú di quello si vede espresso e ’l considerano come capo d’opera. Io me ne congratulo con Vostra Signoria, e l’assicuro che ne ho un piacer infinito, vedendo che finalmente produzioni di spirito del nerbo e del fondo di che sono le sue vengon a qualche ora conosciute, e che ad esse non manca fortuna quando non mancano leggitori di discernimento e di mente 16.

66 ―
A’ gentil inviti ed autorevoli conforti di tali e tanti uomini si credette obbligato di acconsentir a cotal ristampa e di scrivervi l’annotazioni ed aggiunte. E dentro il tempo stesso che giugnessero in Venezia le prime risposte del Vico, perché, per la cagion sopra detta, avevano di troppo tardato, il signor abate Antonio Conti, per una particolar affezione inverso del Vico e le sue cose, l’onorò di quest’altra lettera in data de’ io marzo 1728:

Scrissi due mesi fa una lettera a Vostra Signoria illustrissima, che le sarà capitata, unita ad un’altra del reverendissimo padre Lodoli. Non avendo veduto alcuna risposta, ardisco d’incomodarla di nuovo, premendomi solamente che Vostra Signoria illustrissima sappia quanto io l’amiro e desidero di profittare de’ lumi che Ella abbondantemente sparse nel suo Principio d’una Nuova Scienza. Appena ritornato di Francia, io lo lessi con sommo piacere, e mi riuscirono le scoperte critiche, istoriche e morali non meno nuove che istruttive. Alcuni vogliono intraprendere la ristampa del medesimo libro ed imprimerlo con carattere più commodo ed in forma più acconcia. Il padre Lodoli aveva questo disegno, e mi disse d’averne a Vostra Signoria illustrissima scritto per suplicarla ad aggiungervi altre disertazioni su la stessa materia o illustrazione de’ capitoli del libro stesso, se per aventura ne avesse fatte. I1 signor conte di Porcia mandò allo stesso padre Lodoli la Vita che Ella di se stessa compose, e contiene varie erudizioni spettanti al progresso del sistema istorico e critico stabilito negli altri suoi libri. Quest’edizione è molto desiderata, e molti francesi, a’ quali ho data una compendiosa idea del libro istesso, la chiedono con premura.

Quindi il Vico tanto più si senti stimolato a scrivere delle note e commenti a quest’opera. E nel tempo che vi travagliava, che durò presso a due anni, prima avvenne che il signor conte di Porcia, in una occasione la qual non fa qui mestieri narrare, gli scrisse ch’esso voleva stampar un suo Progetto a’ signori letterati d’Italia più distinti o per l’opere date alla luce delle stampe o più chiari per rinomea d’erudizione e dottrina, come si è sopra pur detto, di scriver essi le loro Vite letterarie sopra una tal sua idea con la quale se ne promuovesse un altro

67 ―
metodo più accertato e più efficace da profittare nel corso de’ suoi studi la gioventù, e di volervi aggiugnere la sua per saggio, che egli gli aveva di già mandata, perché, delle molte che già glien’erano pervenute in potere, questa sembravagli come di getto caduta sulla forma del suo disegno. Quindi il Vico, il qual aveva creduto ch’esso la stampasse con le Vite di tutti ed in mandandogliela aveva professato che si recava a sommo onore d’esser l’ultimo di tutti in si gloriosa raccolta, si diede a tutto potere a scongiurarlo che nol facesse a niun patto del mondo, perché né esso conseguirebbe il suo fine ed il Vico senza sua colpa sarebbe oppresso dall’invidia. Ma, con tutto ciò, essendosi il signor conte fermo in tal suo proponimento, il Vico, oltre di essersene protestato da Roma per una via del signor abate Giuseppe Luigi Esperti, se ne protestò altresí da Venezia per altra di esso padre Lodoli, il qual aveva egli saputo da esso signor conte che vi promoveva la stampa e del di lui Progetto e della Vita di esso Vico; come il padre Calo-gerà, che l’ha stampato nel primo tomo della sua Raccolta degli opuscoli eruditi, l’ha pubblicato al mondo in una lettera al signor Vallisnieri, che vi tien luogo di prefazione; il quale quanto in ciò ha favorito il Vico, tanto dispiacer gli ha fatto lo stampatore, il quale con tanti errori anco ne’luoghi sostanziali n’ha strap-pazzato la stampa. Or nel fine del catalogo delle opere del Vico, che va in piedi di essa Vita, si è con le stampe pubblicato: « Principi d'una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che si ristampano con l’Annotazioni dell’autore in Venezia ».

Di più, dentro il medesimo tempo avvenne che d’intorno alla Scienza nuova gli fu fatta una vile impostura, la quale sta ricevuta tra le Novelle letterarie degli Atti di Lipsia del mese di agosto dell’anno 1727. La qual tace il titolo del libro, ch’è il principal dovere de’ novellieri letterari (perocché dice solamente «Scienza nuova», né spiega dintorno a qual materia); falsa la forma del libro, che dice esser in ottavo (la qual è in dodicesimo); mentisce l’autore e dice che un lor amico italiano gli accerta che sia un « abate » di casa Vico (il qual è padre e per figliuoli e figliuole ancor avolo); narra che vi tratta un

68 ―
sistema o piuttosto «favole» del diritto naturale (né distingue quel delle genti, che ivi ragiona, da quel de’ filosofi che ragionano i nostri morali teologi, e come se questa fusse la materia della Scienza nuova, quando egli n’è un corollario); ragguaglia dedursi da principi altri da quelli da’ quali han soluto finor i filosofi (nello che, non volendo, confessa la verità, perché non sarebbe « scienza nuova » quella dalla quale si deducono tai principi); il nota che sia acconcia al gusto della Chiesa catolica romana (come se Tesser fondato sulla provvedenza divina non fusse di tutta la religion cristiana, anzi di ogni religione: nello che ed egli si accusa o epicureo o spinosista, e, ’n vece d’un’accusa, dá la più bella lode, ch’è quella d’esser pio, all’autore); osserva che molto vi si travaglia ad impugnare le dottrine di Grozio e di Pufendorfio (e tace il Seldeno, che fu il terzo prìncipe dì tal dottrina, forse perch’egli era dotto di lingua ebrea); giudica che compiaccia più all’ingegno che alla verità (quivi il Vico fa una digressione, ove tratta degli più profondi principi dell’ingegno, del riso e de’ detti acuti ed arguti: che l’ingegno sempre si ravvolge dintorno al vero ed è ’1 padre de’ detti acuti, e che la fantasia debole è la madre dell’argutezze, e pruova che la natura dei derisori sia, più che umana, di bestia); racconta che l’autore manca sotto la lunga mole delle sue congetture (e nello stesso tempo confessa esser lunga la mole delle di lui congetture), e che vi lavora con la sua nuova arte critica sopra gli autori delle nazioni (traile quali appena dopo un mille anni provenendovi gli scrittori, non può ella usarne l’autorità); finalmente conchiude che da essi italiani più con tedio che con applausi era ricevuta quell’opera (la qual dentro tre anni della sua stampa si era fatta rarissima per l’Italia e, se alcuna se ne ritruovava, comperavasi a carissimo prezzo, come si è sopra narrato; ed un italiano con empia bugia informò i signori letterati protestanti di Lipsia che a tutta la sua nazione dispiaceva un libro che contiene dottrina catolica!). Il Vico con un libricciuolo in dodicesimo, intitolato: Notae in Acta lipsiensia, vi dovette rispondere nel tempo che, per un’ulcera gangrenosa fattagli nella gola (perché in tal tempo n’ebbe
69 ―
la notizia), egli, essendo vecchio di sessantanni, fu costretto dal signor Domenico Vitolo, dottissimo e costumatissimo medico, d’abbandonarsi al pericoloso rimedio de’ fumi del cinabro, il qual anco a’ giovani, se per disgrazia tocca i nervi, porta l’apoplesia. Per molti e rilevanti riguardi, chiama l’orditore di tale impostura «vagabondo sconosciuto». Penetra nel fondo di tal laida calùnnia e pruova lui averla cosi tramata per cinque fini: il primo per far cosa che dispiacesse all’autore; il secondo per rendere i letterati lipsiensi neghittosi di ricercare un libro vano, falso, catolico, d’un autor sconosciuto; il terzo, se ne venisse lor il talento, col tacere e falsare il titolo, la forma e la condizion dell’autore, difficilmente il potessero ritruovare; il quarto, se pur mai il truovassero, da tante altre circostanze vere la stimassero opera d’altro autore; il quinto per seguitare d’esser creduto buon amico da que’ signori tedeschi17. Tratta i signori giornalisti di Lipsia con civiltà, come si dee con un ordine di letterati uomini d’un’intiera famosa nazione, e gli ammonisce che si guardino per l’avvenire di un tal amico, che rovina coloro co’ quali celebra l’amicizia e gli ha messi dentro due pessime circostanze: una, di accusarsi che mettono ne’ loro Atti i rapporti e i giudizi de’ libri senza vedergli; l’altra, di giudicare d’un’opera medesima con giudizi tra loro affatto contrari. Fa una grave esortazione a costui, che, poiché peggio tratta con gli amici che co’ nimici ed è falso infamatore della nazion sua e vil traditore delle nazioni straniere, esca dal mondo degli uomini e vada a vivere tralle fiere ne’ diserti dell’Affrica. Aveva destinato mandare in Lipsia un esemplare con la seguente lettera al signor Burcardo Menckenio, capo di quella assemblea, primo ministro del presente re di Polonia:

Praeclarissimo eruditorum lipsiensium collegio eiusque praefecto excellentissimo viro Burcardo Menckenio, Iohannes Baptista Vicus s. d.

70 ―

Satis graviter quidem indolui quod mea infelicitas vos quoque, clarissimi viri, in eam adversam fortunam pertraxisset, ut a vestro simulato amico italo decepti omnia vana, falsa, iniqua de me meoque libro cui titulus Principi d’una Scienza nuova dintorno all’umanitá, delle nazioni, in vestra eruditorum Acta referretis; sed dolorem ea mihi consolatio lenivit quod sua naturae sponte ita res nasceretur ut per vestram ipsorum innocentiam, magnanimitatem et bonam fidem, istius malitiam, invidiam perfidiamque punirem; et hic perexiguus liber, quem ad vos mitto, una opera et illius delicta et poenas et ipsas vestras civiles virtutes earumque laudes complecteretur. Cum itaque has Notas bona magnaque ex parte vestra eruditi nominis caussa evulgaverim, eas nedum nullius offensionis sed multae mihi vobiscum ineundae gratiae occasionem esse daturas spero, tecumque in primis, excellentissime Burcarde Menckeni, qui praestantissiinae eruditionis merito in isto praeclarissimo eruditorum collegio principem locum obtines. Bene agite plurimum. Dabam Neapoli, XIV kal. novembris anno MDCCXXIX.

La qual lettera, quantunque, come si vede, fusse condotta con tutta onorevolezza, però, riflettendo che pur cosi avrebbe come di faccia a faccia ripreso que’ letterati di grandi mancanze nel lor ufizio, e che essi, i quali attendono a far incetta de’ libri ch’escono nell’Europa tuttodí dalle stampe, devono sapere principalmente quelli che lor appartengono, per propia gentilezza si risto di mandare.

Or, per ritornare onde usci tal ragionamento, dovendo il Vico risponder a’ signori giornalisti lipsiani, perché nella risposta gli bisognava far menzione della ristampa che si promoveva di tal suo libro in Venezia, ne scrisse al padre Lodoli per averne il permesso (com’infatti nel riportò); onde nella sua risposta di nuovo con le stampe si pubblicò che i Principi della Scienza nuova con le annotazioni di esso autore erano ristampati in Venezia.

E quivi stampatori veneziani sotto maschere di letterati, per lo Gessari e ’1 Mosca, l’uno libraio, l’altro stampatore napoletani, gli avevano fatto richiedere di tutte l’opere sue, e stampate e inedite, descritte in cotal catalogo, di che volevan

71 ―
adornare i loro musei, com’fessi dicevano, ma in fatti per istamparle in un corpo, con la speranza che la Scienza nuova farebbe dato facile smaltimento. A’ quali per far loro vedere che gli conosceva quali essi erano, il Vico fece intendere che di tutte le deboli opere del suo affannato ingegno arebbe voluto che sola fusse restata al mondo la Scienza nuova, ch’essi potevano sapere che si ristampava in Venezia. Anzi, per una sua generosità, volendo assicurare anco dopo la sua morte lo stampatore di cotal ristampa, offerì al padre Lodoli un suo manoscritto di presso a cinquecento fogli, nel qual era il Vico andato cercando questi Principi per via negativa, dal quale se n’arebbe potuto di molto accrescere il libro della Scienza nuova, che ’l signor don Giulio Torno, canonico e dottissimo teologo di questa chiesa napoletana, per una sua altezza d’animo con cui guarda le cose del Vico, voleva far qui stampare con alquanti associati, ma lo stesso Vico priegandolo nel rimosse, avendo di già truovati questi Principi per la via positiva.

Finalmente dentro il mese d’ottobre dell’anno 1729 pervenne in Venezia, ricapitato al padre Lodoli, il compimento delle correzioni al libro stampato e dell’annotazioni e commenti, che fanno un manoscritto di presso a trecento fogli.

Or, ritruovandosi pubblicato con le stampe ben due volte che la Scienza nuova si ristampava con l’aggiunte in Venezia, ed essendo colà pervenuto tutto il manoscritto, colui che faceva la mercatanzia di cotal ristampa usci a trattar col Vico come con uomo che dovesse necessariamente farla ivi stampare. Per la qual cosa, entrato il Vico in un punto di propia stima, richiamò indietro tutto il suo ch’avea colà mandato; la qual restituzione fu fatta finalmente dopo sei mesi ch’era già stampato più della metta di quest’opera. E perché, per le testé narrate cagioni, l’opera non ritruovava stampatore né qui in Napoli né altrove che la stampasse a sue spese, il Vico si die’ a meditarne un’altra condotta, la qual è forse la propia che doveva ella avere, che senza questa necessità non arebbe altrimente pensato, che, col confronto del libro innanzi stampato, apertamente si scorge esser, dall’altra che aveva tenuto, a tutto cielo diversa. Ed in

72 ―
questa tutto ciò che nell’Annotazioni, per seguire il filo di quell’opera, distratto leggevasi e dissipato, ora con assai molto di nuovo aggiunto si osserva con uno spirito comporsi e reggere con uno spirito, con tal forza di ordine (il quale, oltre all’altra ch’è la propietà dello spiegarsi, è una principal cagione della brevità) che ’l libro di già stampato e ’l manoscritto non vi sono cresciuti che soli tre altri fogli di più. Dello che si può far sperienza, come, per cagion d’esempio, sulle propietà del diritto naturai delie genti, delle quali col primo metodo nel capo 1, § vii ragionò presso a sei fogli, ed in questa ne discorre con pochi versi.

Ma fu dal Vico lasciato intiero il libro prima stampato per tre luoghi de’ quali si truovò pienamente soddisfatto, per gli quali tre luoghi principalmente è necessario il libro della Scienza nuova la prima volta stampato, del quale intende parlare allorché cita la «Scienza nuova» o pure «l’opera con l’Annotazioni», a differenza di quando cita «altra opera sua», che intende per gli tre libri del Diritto universale. Laonde o essa Scienza nuova prima, ove si faccia altra ristampa della seconda, devi stamparlesi appresso, o almeno, per non fargli disiderare, vi si devono stampare detti tre luoghi. Anzi, acciocché nemmeno si desiderassero i libri del Diritto universale, de’ quali assai meno della Scienza nuova prima, siccome d’un abbozzo di quella, il Vico era contento, e gli stimava solamente necessari per gli due luoghi: —uno della favola d’intorno alla legge delle Xll Tavole venuta d’Atene, l’altro d’intorno alla favola della Legge regia di Triboniano, — anco li rapportò in due Ragionamenti, con più unità e maggior nerbo trattati. I quali due sono di quelli errori che '1 signor Giovanni Clerico, nella Biblioteca antica e moderna, in rapportando que’ libri, dice che « in un gran numero di materie vi si emendano quantità d’errori volgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto avvertito ».

Né già questo dee sembrar fasto a taluni: che il Vico, non contento de’ vantaggiosi giudizi da tali uomini dati alle sue opere, dopo le disappruovi e ne faccia rifiuto, perché questo è argomento della somma venerazione e stima che egli fa di tali uomini anzi che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi scrit-

73 ―
tori sostengono le lor opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende d’altrui; altri che, per avventura, sono di cuor picciolo, s’empiono de’ favorevoli giudizi dati alle loro e, per quelli stessi, non piú s'avvanzano a perfezionarle. Ma al Vico le lodi degli uomini grandi ingrandirono l’animo di correggere, supplire ed anco in miglior forma di cangiar questa sua. Cosi condanna le Annotazioni, le quali per la via niegativa andavano truovando questi Principi, perocché quella fa le sue pruove per isconcezze, assurdi, impossibilità, le quali, co’ loro brutti aspetti, amareggiano piuttosto che pascono l’intendimento, al quale la via positiva si fa sentire soave, ché gli rappresenta l’acconcio, il convenevole, l’uniforme, che fanno la bellezza del vero, del quale unicamente si diletta e pasce la mente umana. Gli dispiacciono i libri del Diritto universale, perché in quelli dalla mente di Platone ed altri chiari filosofi tentava di scendere nelle menti balorde e scempie degli autori della gentilità, quando doveva tener il cammino tutto contrario; onde ivi prese errore in alquante materie. Nella Scienza nuova prima, se non nelle materie, errò certamente nell’ordine, perché trattò de’ principi dell’idee divisamente da’ principi delle lingue, ch’erano per natura tra lor uniti, e pur divisamente dagli uni e dagli altri ragionò del metodo con cui si conducessero le materie di questa Scienza, le quali, con altro metodo, dovevano fil filo uscire da entrambi i detti principi: onde vi avvennero molti errori nell’ordine.

Tutto ciò fu nella Scienza nuova seconda emendato. Ma il brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere, quasi sotto il torchio, quest’opera, con un estro quasi fatale, il quale lo strascinò a si prestamente meditarla ed a scrivere, che l’incominciò la mattina del santo Natale e fini ad ore ventuna della domenica di Pasqua di Resurrezione; — e pure, dopo essersi stampato più della mettá di quest’opera, un ultimo emergente, anco natogli da Venezia, lo costrinse di cangiare quarantatré fogli dello stampato, che contenevano una Novella letteraria (dove intiere e fil filo si rapportavano tutte le lettere e del padre Lodoli e sue d’intorno a cotal affare con

74 ―
le riflessioni che vi convenivano), e, ’n suo luogo, proporre la dipintura al frontispizio di quei libri, e della di lei Spiegazione scrivere altrettanti fogli ch’empiessero il vuoto di quel picciol volume; — di più, un lungo grave malore, contratto dall’epidemia del catarro, ch’allora scorse tutta l’Italia; — e finalmente la solitudine nella quale il Vico vive: — tutte queste cagioni non gli permisero d'usare la diligenza, la qual dee perdersi nel lavorare d’intorno ad argomenti c’hanno della grandezza, perocch’ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Per tutto ciò non poté avvertire ad alcune espressioni che dovevano o, turbate, ordinarsi o, abbozzate, polirsi o, corte, più dilungarsi; né ad una gran folla di numeri poetici, che si deon schifar nella prosa; né finalmente ad alquanti trasporti di memoria, i quali però non sono stati ch’errori di vocaboli, che di nulla han nuociuto all’ intendimento. Quindi nel fine di quei libri, con le Annotazioni prime, insieme con le correzioni degli errori anco della stampa (che, per le suddette cagioni, dovettero accadervi moltissimi), die’ con le lettere M ed A i miglioramenti e l’aggiunte; e sieguitò a farlo con le Annotazioni seconde, le quali, pochi giorni dopo esser uscita alla luce quell’opera, vi scrisse con l’occasione che’l signor don Francesco Spinelli principe di Scalea, sublime filosofo e di colta erudizione particolarmente greca adornato, lo aveva fatto accorto di tre errori, i quali aveva osservato nello scorrere in tre di tutta l’opera. Del qual benigno avviso il Vico gli professò generosamente le grazie nella seguente lettera stampata, ivi aggiunta, con cui tacitamente invitò altri dotti uomini a far il medesimo, perché arebbe con grado ricevuto le lor ammende:

Io debbo infinite grazie a Vostra Eccellenza, perocché, appena dopo tre giorni che le feci per un mio figliuolo presentar umilmente un esemplare della Scienza nuova ultimamente stampata, Ella, tolto il tempo che preziosamente spende o in sublimi meditazioni filosofiche o in lezioni di gravissimi scrittori particolarmente greci, l’aveva già tutta letta: che per la maravigliosa acutezza del vostro ingegno e per l’alta comprensione del vostro intendimento, tanto egli è stato averla quasi ad un fiato scorsa quanto averla fin

75 ―
al midollo penetrata e ’n tutta la sua estensione compresa. E, passando sotto un modesto silenzio i vantaggiosi giudizi ch’Ella ne diede per un’altezza d’animo propia del vostro alto stato, io mi professo sommamente dalla vostra bontà favorito, perocché Ella si degnò anco di mostrarmene i seguenti luoghi, ne’ quali aveva osservato alcuni errori che Vostra Eccellenza mi consolava essere stati trascorsi di memoria, i quali di nulla nuocevano al proposito delle materie che si trattano, ove son essi avvenuti.

Il primo è a p. 313, v. 19, ove io fo Briseide propia d’Agamennone e Criseide d’Achille, e che quegli avesse comandato restituirsi la Criseide a Crise di lei padre, sacerdote di Apollo, che perciò faceva scempio del greco esercito con la peste, e che questi non avesse voluto ubidire; il qual fatto da Omero si narra tutto contrario. Ma cotal error da noi preso era in fatti, senz’avvedercene, un’emenda d’Omero nella parte importantissima del costume: che anzi Achille non avesse voluto ubidire, e che Agamennone per la salvezza dell’esercito l’avesse comandato. Ma Omero in ciò veramente serbò il decoro, che, quale l’aveva fatto saggio, tale finse il suo capitano anco forte, che, avendo renduto Criseide come per forza fattagli da Achille, e stimando esserglici andato del punto suo, per rimettersi in onore tolse ingiustamente ad Achille la sua Briseide, col qual fatto andò a rovinare un’altra gran parte de’ greci: talché egli nell’Iliade vien a cantare uno stoltissimo capitano. Laonde cotal nostro errore ci nuoceva veramente in ciò: che non ci aveva fatto vedere quest’altra gran pruova della sapienza del finora creduto, che ci confermava la discoverta del vero Omero. Né pertanto Achille, che Omero con l’aggiunto perpetuo d’« irreprensibile » canta a’ popoli della Grecia in esemplo dell’eroica virtù, egli entra nell’idea dell’eroe quale ’1 diffiniscono i dotti, perché, quantunque fusse giusto il dolor d’Achille, però — dipartendosi con le sue genti dal campo e con le sue navi dalla comun’armata, fa quell’empio voto: ch’Ettorre disfacesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati, e gode esaudirsi (siccome, nel ragionando insieme di queste cose, Vostra Eccellenza mi soggiunge quel luogo dove Achille con Patroclo desidera che morissero tutti i greci e troiani ed essi soli sopravi vesserò a quella guerra) — era la vendetta scelleratissima.

Il secondo errore è a pag. 314, v. 38, e pag. 315, v. 1, ove mi avvertiste che’l Manlio, il qual serbò la ròcca del Campidoglio da’ Galli, fu il Capitolino, dopo cui venne l’altro che si

76 ―
cognominò Torquato, il qual fece decapitar il figliuolo; e che non questi ma quegli, per aver voluto introdurre conto nuovo a pro della povera plebe, venuto in sospetto de’ nobili che col favor popolare volesse farsi tiranno di Roma, condennato, funne fatto precipitare dal monte Tarpeo. Il qual trasporto di memoria si che ci nuoceva in ciò: che ci aveva tolto questa vigorosa pruova dell’uniformità dello stato aristocratico di Roma antica e di Sparta, ove il valoroso e magnanimo re Agide, qual Manlio Capitolino di Lacedemone, per una stessa legge di conto nuovo, non già per alcuna legge agraria, e per un’altra testamentaria, fu fatto impiccare dagli efori.

Il terzo errore è nel fine del libro quinto, p. 445, v. 37, ove deve dir « numantini » (che tali sono quivi da esso ragionamento circoscritti).

Per gli quali vostri benigni avvisi mi son dato a rilegger l’opera, e vi ho scritto le correzioni, miglioramenti ed aggiunte seconde.

Le quali annotazioni prime e seconde, con altre poche ma importantissime, ch’è ito scrivendo interrottamente conte di tempo in tempo ragionava l’opera con amici, potranno incorporarlesi ne’ luoghi ove sono chiamate, quando si ristampi la terza volta.

Mentre il Vico scriveva e stampava la Scienza nuova seconda, fu promosso al sommo pontificato il signor Cardinal Corsini, al qual era stata la prima, essendo cardinale, dedicata, e si dovette a Sua Santità anco questa dedicarsi. Il quale, essendogli stata presentata, volle, come gli venne scritto, che ’1 signor cardinale Neri Corsini suo nipote, quando ringraziava l’autore dell’esemplare che questi, senza accompagnarlo con lettera, gli aveva mandato, gli rispondesse in suo nome con la seguente:

Molto illustre signore

L’opera di Vostra Signoria de’ Principi di una Nuova Scienza aveva già esatto tutta la lode nella prima sua edizione da Nostro Signore, essendo allora cardinale; ed ora tornata alle stampe, accresciuta di maggiori lumi ed erudizione dal di lei chiaro ingegno, ha incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il gradimento. Ho voluto dar a lei la consolazione di questa notizia nell’atto istesso che mi muovo a ringraziarla del libro fattomene

77 ―
presentare, del quale ho tutta la considerazione che merita, ed esibendole in ogni congiontura di suo servizio tutta la mia parzialità, prego Dio che la prosperi. Di Vostra Signoria

Roma, 6 gennaio 1731

affez. sempre N. card. Corsini.

Colmato il Vico di tanto onore, non ebbe cosa al mondo più da sperare; onde per l’avvanzata età, logora da tante fatighe, afflitta da tante domestiche cure e tormentata da spasimosi dolori nelle cosce e nelle gambe e da uno stravagante male che gli ha divorato quasi tutto ciò ch’è al di dentro tra l’osso inferior della testa e '1 palato, rinnonziò affatto agli studi. Ed al padre Domenico Lodovici, incomparabile latin poeta elegiaco e di candidissimi costumi, donò il manoscritto delle annotazioni scritte alla Scienza nuova prima con la seguente iscrizione:

Al Tibullo cristiano — padre Domenico Lodovici —questi — dell’infelice SCIENZA NUOVA — miseri —e per terra e per mare SBATTUTI —AVVANZI— DALLA CONTINOVA TEMPESTOSA FORTUNA — AGGITATO ED AFFLITTO — COME AD ULTIMO SICURO PORTO — GIAMBATTISTA Vico — lacero e stanco — finalmente ritragge18.

Egli nel professare la sua facultá fu interessatissimo del profitto de’ giovani, e, per disingannargli o non fargli cadere negl’inganni de’ falsi dottori, nulla curò di contrarre l’inimicizie de’ dotti di professione. Non ragionò mai delle cose dell’eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l’eloquenza altro non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva indirizzare gl’ingegni e fargli univer-

78 ―
sali, e che l’altre attendevano alle parti, questa doveva insegnare l’intiero sapere, per cui le parti ben si corrispondan tra loro e ben s’intendan nel tutto. Onde d’ogni particolar materia dintorno al ben parlare discorreva talmente ch’ella fusse animata, come da uno spirito, da tutte quelle scienze ch’avevan con quella rapporto: ch’era ciò ch’aveva scritto nel libro De ratìone studiorum, ch’un Platone, per cagion di chiarissimo esemplo, appo gli antichi era una nostra intiera università di studi tutta in un sistema accordata. Talché ogni giorno ragionava con tal splendore e profondità di varia erudizione e dottrina, come se si (ussero portati nella sua scuola chiari letterati stranieri ad udirlo. Egli peccò nella collera, della quale guardossi a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser difettuoso: che con maniere troppo risentite inveiva contro o gli errori d’ingegno o di dottrina o ’l mal costume de’ letterati suoi emoli, che doveva con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulare o compatirgli. Però quanto fu acre contro coloro i quali proccuravano di scemargliele, tanto fu ossequioso inverso quelli che di esso e delle sue opere facevano giusta stima, i quali sempre furono i migliori e gli più dotti della città. De’ mezzi o falsi, e gli uni e gli altri perché cattivi dotti, la parte più perduta il chiamava pazzo, o con vocaboli alquanto più civili, il dicevano essere stravagante e d’idee singolari od oscuro. La parte più maliziosa l’oppresse con queste lodi: altri dicevano che ’l Vico era buono ad insegnar a’ giovani dopo aver fatto tutto il corso de’ loro studi, cioè quando erano stati da essi già resi appagati del lor sapere, come se fusse falso quel voto di Quintiliano, il qual desiderava ch’i figliuoli de’grandi, come Alessandro Magno, da bambini (ussero messi in grembo agli Aristotili; altri s’avvanzavano ad una lode quanto più grande tanto più rovinosa: ch’egli valeva a dar buoni indirizzi ad essi maestri19. Ma egli tutte queste avversità benediceva come oc-
79 ―
casioni per le quali esso, come a sua alta inespugnabil ròcca, si ritirava al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali chiamava « generose vendette de’ suoi detrattori »; le quali finalmente il condussero a ritruovare la Scienza nuova. Dopo la quale, godendo vita, libertà ed onore, si teneva per più fortunato di Socrate, del quale, faccendo menzione il buon Fedro, fece quel magnanimo voto:

cuius non fugio mortem, si famam assequar,
et cedo invidiae, dummodo absolvar cinis.