Libro Quinto ed Ultimo
Condotta delle materie onde si formino con un getto stesso la filosofia dell’umanitá e la storia universale nelle nazioni.
[INTRODUZIONE]
[399] Con l’aiuto di queste scoverte, che a lei bisognavano, questa Scienza, la quale per la serie delle cagioni è la filosofia dell’umanitá e per lo séguito degli effetti è la storia universale delle nazioni, prende per suo subbietto esse nazioni medesime, in quanto elleno sono quelle che hanno religioni e leggi propie e, per difendere le loro leggi e religioni, hanno propie armi e coltivano le lingue delle loro leggi e delle loro religioni — le quali nazioni sono propiamente libere: — nelle quali cose, come elleno van mancando, piú tosto che vadano a spegnersi con la rabbia delle guerre civili, nelle quali prorompono i popoli che calpestano le loro leggi e religioni, per consiglio della provvedenza, cosí vanno a soggettarsi ad altre migliori che le conservano. Onde nell’Idea dell’opera fu questo libro tutto in questo motto compreso: «foedera generis humani», spiegante che il diritto naturale delle genti, da un’ad altra passando, conserva nella somma esso genere umano.
Capo i
Uniformitá del corso che fa l’umanitá nelle nazioni.
[400] L’uniformitá poi del corso che fa tra le nazioni l’umanitá si può facilmente avvertire sul confronto di due tra loro molto dissomiglianti: l’ateniese e la romana, una di filosofi, un’altra di soldati.
[401] Teseo fonda Atene sopra l’ara o altare degl’infelici, appunto come Romolo fonda Roma dentro il luco, ove entrambi aprono l’asilo a’ pericolanti. Teseo dura una fatica erculea in ridurre i dodici villaggi di Attica nel giusto corpo della sua cittá: che fu la metá della fatica che durarono i re di Roma in manomettere da venti e piú popoli convicini tra lo spazio di dugencinquant’anni. Teseo serba per sé l’amministrazione delle leggi e delle guerre, alla stessa fatta che i re romani. Finito il regno ateniese, si creano gli arconti, prima ogni diece anni, poi, quali restarono, annali: cosí, finito il regno romano, gli si sustituiscono annali consoli; essendo andate prima sotto la tirannide entrambe, Atene de’ Pisistratidi, Roma de’ Tarquini, con questa picciola differenza di tempo: che Aristogitone libera Atene dal tiranno Ipparco da un diece anni innanzi che Bruto caccia da Roma il Superbo; ma pure, con gli stessi destini, Ippia ed Ipparco invano sono assistiti da Dario per essere riposti in sedia che Tarquinio da Porsena. Che conferí dunque alla libertá ateniese la sapienza di Solone piú di quello che la natura delle cose istesse conferí diece anni dopo alla romana? Se conferí ciò: — che da dugento anni innanzi ella guerreggiò e sostenne con tanta gloria la libertá della Grecia contra la sterminata persiana potenza — dugento anni dopo, non per la propia libertá, ma per l’imperio del mondo Roma contese con Cartagine e la trionfò: talché la grandezza dell’imprese romane compensa con vantaggio la maturitá delle greche. Che se Alessandro Magno avesse vòlte le armi in Occidente contro di Roma, come le voltò in Oriente contro la Persia, per lo giudizio di Livio egli vi arebbe perduto tutta la gloria. Adunque Solone non fece altro che affrettare gl’ingegni ateniesi a divenir filosofi, perché naturalmente il sito sterile ed aspro gli aveva fatti piú umani. Cosí il sito di Roma, che, per giudizio di Strabone, parve dalla natura fatto per istabilirvi l’imperio dell’universo, cooperò alla sua quarta monarchia. Del rimanente, se la stessa comoditá di sito avesse avuto o Cartagine o Numanzia, quello che poi fu Roma sarebbe stata o Numanzia o Cartagine, dalle quali due cittá Roma stessa temette l’imperio del mondo.
Capo ii
Due antichitá egiziane si truovano princípi
di questa scienza.
[402] Si fonda perciò tutta questa Scienza sopra due come gran moli di antichitá egiziana, cioè di quegli egizi che solevano motteggiare i greci, che n’erano troppo ignoranti, che essi erano sempre fanciulli.
[403] Una è la divisione di tutti i tempi scorsi loro dinanzi in tre etá: la prima degli dèi, la seconda degli eroi, la terza degli uomini. La qual divisione di etá dee portar seco la divisione, che abbiamo ragionata, de’ governi divini, eroici ed umani, per quella certa veritá istorica che l’epoche de’ tempi sono state per lo piú prese dagl’imperi che sono stati piú celebrati nel mondo.
[404] L’altra è un’altra divisione di lingue, che riferisce Porfirio appo Scheffero,De philosophia italica, le quali si parlarono dal principio del mondo insino a’ loro ultimi tempi. La prima per geroglifici o caratteri sagri, cioè una lingua degli dèi, che Omero narra piú antica della sua, con la qual lingua divina spiegavano tutte le cose umane: onde tra le genti latine si formò il vocabolario di trentamila dèi di Varrone. La seconda, simbolica o per imprese, quale appunto abbiam veduto l’eroica overo la lingua dell’armi. La terza epistolica overo per lettere volgari e per parlari convenuti per gli ultimi loro usi presenti della vita. La qual divisione di lingue risponde a quella dell’etá a livello cosí nelle parti come nell’ordine; e la stessa va di séguito a quella degli tre diritti delle genti, divino, eroico ed umano da noi sopra dimostri, per quella pratica, sperimentata di tutte le nazioni, che le lingue vivono con gl’imperi, che con quelle concepiscono le formole delle loro religioni e delle loro leggi.
Capo iii
Princípi di questa scienza
si truovano dentro quelli della storia sagra.
[405] Posti questi fondamenti — faccendoci da capo da essi princípi della storia sagra, per quello che abbiamo sopra dimostro della di lei antichitá sopra tutte le profane, — nel pudore, onde, dipoi aver peccato, si vergognarono vedersi nudi i due príncipi del genere umano; nella curiositá per la quale, mal usata, peccarono; e nell’industria di dovere l’uomo col sudore della fronte civanzarsi la vita — tre pene salutevoli date da Dio al genere umano per lo peccato de’ due primi uomini — si vanno a truovare tutti i princípi dell’umanitá. Nel pudore, quelli del diritto naturale delle genti per tutte le parti che compongono la di lui iconomia, che tutte, come abbiamo dimostro, ebbero dal pudore le prime origini; nella curiositá, quelli di tutte le scienze; e nell’industria, quelli di tutte le arti. E nella sovrana potestá di Adamo e sovrano di lui dominio sopra tutta la restante natura mortale a lui servibile, ed in quanto servibile, siccome di uomo, quantunque caduto, il primo ottimo per natura sopra tutto il genere umano, si truovano cosí la potestá originaria di tutti i governi ed imperi come il dominio originario di tutte le signorie e di tutti i commerzi, che sono le due fonti e sorgive universali e perpetue di tutti i diritti di tutte le nazioni di tutti i tempi.
Capo iv
Supplimento della storia antidiluviana.
[406] Quindi, in séguito della storia ideale eterna che abbiamo qui sopra divisato — col precorso delle cagioni medesime di Seto e della sua razza a Semo ed alla di lui generazion pia di
non giganti, e di Caino e sua generazione empia gigantesca a Cam e Giafet ed alle loro razze di giganti, avendovi dovuto precorrere il séguito de’ medesimi effetti — finalmente Caino, accorto de’ mali della vita vagabonda ed empia, con alquanti giganti nati almeno fra dugento anni del suo error bestiale, dovette fondare la cittá in odio della religione del padre Adamo sopra la divinazione d’una qualche simigliante spezie a quella de’ caldei (perché a lui non precedette alcun diluvio, onde a capo di lunga etá avesse dovuto tuonare il cielo, che forse innanzi al Diluvio non tuonò mai) e vi restituí l’agricoltura, che, come di mente schiarita nella vera religione, in cui nacque e crebbe, egli aveva giá ritruovata; con questa sola ma rilevante differenza: che Adamo, illuminato dal vero Dio, ritruovò tosto una favella eroica articolata; ma Caino, perché gli era stato bisogno unire gli sperduti giganti sull’idea di qualche divinitá provvedente, per communicare con essoloro, dovette incominciare da una favella divina muta. Cosí si supplisce il lungo tratto di milleseicencinquansei anni che corre oscuro nella storia sagra antidiluviana.[407] La perpetuitá della storia sagra con la profana si è truovata pur sopra, ove dimostrammo il diluvio universale ed i giganti essere stati in natura.
Capo v
Comprendimento della storia oscura
degli assiri, fenici, egizi.
[408] Fra mille anni dopo il Diluvio comparisce la monarchia di Nino tra la gente caldea; e, per la schiavitú sofferta dagli ebrei in Egitto dentro questo tempo (piú verso il fine), per le cose sopra ragionate l’Egitto si reggeva da monarchi; e giá Tiro nel fine di questo istesso tempo è celebre per la navigazione e per le colonie. Onde si dimostra e nell’Assiria e nell’Egitto
e nella Fenicia essere giá trascorse le due etá degli dèi e degli eroi, dagli assiri detti «caldei» e dagli egizi «sacerdoti»; e l’Assiria e l’Egitto, che stesero gl’imperi dentro terra, esser andati sotto una spezie di governi umani, che sono le monarchie, di cui sono piú pazienti le nazioni mediterranee. Ma la Fenicia, benché alquanto piú tardi, per la comoditá del mare essere andata coi commerzi nell’altra spezie de’ governi umani, che sono le repubbliche libere. Che è altro saggio della storia ideale eterna da noi divisata qui sopra.Capo vi
Etá degli dèi di Grecia che si truovano princípi divini
di tutte le cose umane gentilesche.
[409] Mentre nell’Oriente, Egitto e Siria le nazioni sono giá ite sotto governi umani, le genti greche ed italiane vivono sotto governi divini, quantunque — a proporzione della maggior vicinanza di Grecia all’Oriente, onde si propagarono tutte le nazioni — alquanto piú prestamente nella Grecia che nell’Italia. E nella Grecia, dalla quale abbiamo tutto ciò che abbiamo dell’antichitá gentilesche, per la scoverta che abbiam fatto sopra circa a’ princípi de’ caratteri poetici e delle vere poetiche allegorie, si truovano i dodici dèi delle genti maggiori essere stati dodici gran princípi divini di tutte le cose umane de’ gentili con quest’ordine che ne dá la nostra cronologia ragionata sopra una teogonia naturale, che noi sopra ponemmo per gli princípi storici dell’astronomia e quindi della usata cronologia. Questi dodici dèi della prima da noi lontanissima antichitá gentilesca deono servire come dodici minute epoche, con le quali si possono dare i tempi loro a tutte le favole degli eroi politici che hanno alcun rapporto con una di queste deitadi. E qui ne daremo le pruove.
i
[410] Il Cielo ci viene narrato dalla storia favolosa padre di tutti i dèi, avere in terra regnato ed aver lasciato de’ grandi e molti benefíci al genere umano.
ii
[411] Giove, di tutti gli altri figliuoli del Cielo, egli fu fantasticato padre e re di tutti i dèi: onde è il principio dell’idolatria e della divinazione o sia scienza degli auspíci, nella guisa che si è disopra dimostro che egli fu il primo dio nato dalle greche fantasie. E l’idolatria e la divinazione, per gli nostri princípi della poesia, nacquero figliuole gemelle di quella prima civile metafora che Giove fosse il cielo, che scrivesse le leggi con la folgore e le pubblicasse col tuono. Sulla quale si formò il primo sentimento poetico civile, nel quale si unisce il sublime col popolaresco (di cui in tutta la poesia non nacque piú meraviglioso in appresso), che:
ne la prima etade
gli eroi leggean le leggi in petto a Giove.
[412] Onde, per le nostreCagioni della lingua latina, sul principio «Ious» significò e «Giove» e «diritto»; ed appo i greci, come in acconcio Platone avverte, διαῑον, «celeste» significò daprima anche «diritto», che poi, aggiuntovi per leggiadria di favella il κ, restò detto δικαίον. E su questa idea che fosse stato lo stesso «diritto» che «Giove» incominciarono i regni divini con l’idolatria e la favella pur divina o il parlare della divinazione; e sí incominciò il diritto delle genti divino. Al qual tempo sono da porsi Deucalione e Pirra, che, dopo il Diluvio, sopra un monte, innanzi al tempio di Temi (cioè della giustizia divina), co’ capi velati (cioè col pudore de’ concubiti), i sassi davanti a’ piedi (cioè gli scempioni di Grozio), lanciandoglisi
dietro le spalle (cioè con la disciplina iconomica), fanno divenire uomini (li formano all’umanitá col timore dei divini governi). Li quali due furono il vero Orfeo, che, col cantare ai sassi nonché alle fiere il poter degli dèi, fondarono la greca nazione.[413] Appruova l’ultima antichitá di Giove la quercia ad essolui consegrata, perché fermò nelle terre gli uomini, che mangiavano ghiande. Nel qual tempo incomincia il gran principio della divisione de’ campi dalla religione del fulmine, che i giganti vagabondi empi atterrò, cioè fermò in certe terre. Talché quinci s’incomincia a formar Teseo, detto da θέσις, non giá dalla bella positura del corpo, ma dallo essersi postato nelle terre dell’Attica.
iii
[414] Giunone è il principio delle nozze sollenni, cioè celebrate con gli auspíci di Giove. È perciò detta «giogale», dal giogo del matrimonio; e Lucina, che porta i certi figliuoli alla luce civile. È di Giove sorella e moglie, perché le prime nozze si celebrarono tra costoro che avevano gli auspíci di Giove comuni. Ella è gelosa di Giove, ma con una gelosia severa, convenevole a’ legislatori che debbono fondar popoli e nazioni: gelosa di comunicare le nozze a coloro che non hanno la comunione degli auspíci di Giove. È sterile, ma di una sterilitá, per cosí chiamarla, civile: onde restò comun costume a tutte le nazioni che le donne non fan casato. Sospesa in aria (che è la regione degli auspíci), con un fune al collo (per quella prima forza che sopra dicemmo fatta da’ giganti alle donne vagabonde, con la quale le trassero nelle loro grotte e le vi fermarono: onde vennero le certe successioni delle case overo genti maggiori), con le mani pur con un fune ligate (che fu il primo nodo coniugale, a cui in segno succedette appo quasi tutte le nazioni l’anello), con due gran sassi a’ piedi (per significare la stabilitá delle nozze, le quali non si dividevano mai: onde assai tardi fu introdotto il divorzio tra’ romani, il
perché Virgilio disse «coniugium stabile» il matrimonio sollenne). Con tanta facilitá si spiega questa favola, che prima era un de’ maggiori tormenti dello ’ngegno de’ mitologi.[415] A Giunone è consegrato il pavone, che con la coda somiglia i colori dell’Iride, di lei ministra, per significare l’aria, che è la regione degli auspíci, per gli quali Giunone è la dea de’ matrimoni sollenni.
iv
[416] Diana è il principio della castitá de’ concubiti umani: indi innalzata alla luna, il piú cospicuo astro notturno. La qual perciò la notte secretamente giace sconosciuta con Endimione mentre dorme. Ella dee essere la terza delle maggiori divinitá, perché la prima necessitá umana ad uomini e donne in certe terre postati, che non piú divagavano, dovette essere l’acqua perenne vicina, che dovette esser lor mostrata dalle aquile che fanno i nidi a’ fonti: onde furono cosí dette da’ latini quasi «aquulae» in accorcio per «aquulegae», come «aquilex» il ritruovatore dell’acqua; il perché il riputavano il primo gran beneficio per le aquile loro portato da Giove. Élleno da principio si dissero tutti gli uccelli di rapina, che hanno questa propietá di fare i nidi sopra l’alto de’ monti, dove le prime terre all’aria ventilata, vicino l’acqua perenne ed in siti forti si truovarono poi piantate: che Platone attribuisce a consiglio de’ primi fondatori delle cittá, che, in fatti, fu beneficio della provvedenza ed uno di quelli che fece il Cielo al genere umano nel tempo che regnò in terra. Perché le aquile che seguí Romolo in prendere il luogo alla cittá, che ne restarono i numi dell’imperio romano, furono certamente avoltoi.
[417] Sicché Diana è ’l principio della religione delle fonti perenni, necessarie a fermare gli uomini in certe terre, che da παγή, «fonte», a’ greci, sono dette «pagi» a’ latini ([e] di questi uomini parlano le leggi barbare, che in gran numero osserva Grozio nelle note, che punivano in pochi danai la morte dell’uomo ucciso: che egli arreca in pruova dell’umanitá delle
pene de’ primi tempi, che sono piú tosto pruova della barbarie). Onde l’acqua restò il primo degli elementi delle cose sagre o divine de’ gentili e, ’n conseguenza, un de’ primi princípi di tutte le cose umane. E perciò gli dèi giuravano per Istige, l’acqua profonda overo le sorgive delle fontane, che fondarono il regno ad essi dèi con ispaventose superstizioni. Onde Atteone, che ebbe ardire di guardare Diana ignuda (la sorgiva della fontana), ne divenne cervo (animale timidissimo) e fu sbranato da’ suoi cani (dalla sua coscienza rea d’empietá). E da «lympha», «acqua pura», ne restarono «lymphati» a’ latini gli alienati di mente, quasi d’acqua pura spruzzati.v
[418] Apollo è il principio de’ nomi o sia delle genti con le sepolture degli antenati in certe terre a ciò destinate. Onde Apollo dovette essere il quarto dio maggiore, perché i postati in certe terre dovettero risentirsi del brutto lezzo de’ cadaveri de’ loro attenenti marciti loro da presso, e il puzzore dovette finalmente commovergli a seppellirgli. Quindi è il principio della storia, che cominciò dalle genealogie, e perciò fatto principio della luce civile, alla quale Giunone Lucina porta i legittimi parti: onde poi fu affisso al sole, fonte della luce naturale. Principio altresí delle voci articolate: talché a questo tempo è da porsi Elleno, figliuolo di Deucalione, che per tre suoi figliuoli incomincia a formare tre primi dialetti di Grecia. Quindi per gli princípi che ne abbiamo scoverti sopra, Apollo è principio del canto e de’ versi, e perciò principio della legislazione per gli oracoli, che da per tutto risposero in versi. Perché gli oracoli furono le prime leggi de’ gentili; e ne restarono le leggi dette a’ greci νόμοι, «canti» e «carmina» agli antichi latini, perché furono
dictae per carmina sortes;
e i primi oracoli, le prime sorti furono le prime leggi dette da’ padri di famiglia e le prime cose della vita, intorno alle
quali perciò a’ latini restarono dette «vitae consortium» e i mariti e le mogli «consortes»: onde fu Apollo il principio della scienza in divinitá, che fu la prima sapienza. È pur Apollo dio della medicina, che diede i nomi all’erbe nello stato ferino dagli scempioni di Grozio, conosciute per senso salutevoli a’ morbi. E, per queste cose tutte, principio dell’umanitá, la quale a’ latini principalmente da «humare», «seppellire», fu detta «humanitas».[419] Ed Apollo e Diana sono figliuoli gemelli di Latona, dea detta da que’ nascondigli onde da «latendo» fu detto «Latium», e ne restò a’ latini «condere gentes», «condere leges», «condere urbes», «condere regna»: che tutti nacquero dalle case antichissime nascoste nelle selve, tutte sole e divise le une dalle altre, come narra Polifemo ad Ulisse. Entrambi cacciatori di fiere, non giá per vaghezza, ma per questa umana necessitá: che i postati non potevano, fuggendo, campar dalle fiere come i vagabondi empi, ma fermi dovevano difenderne sé e le loro famiglie (onde forse agl’italiani venne «caccia» dal cacciar le fiere, non dalle loro tane, ma da’ primi lor abituri): il perché uccidono fiere Ercole, Teseo ed altri eroi. Apollo fu pastore, non giá pastorella Diana, perché lo fu, non di greggi e di armenti, ma pastore di uomini vagabondi, rifuggiti agli asili e ricevuti nelle clientele degli eroi, per gli princípi che sopra ne abbiamo ragionati; e con tutta propietá ne restarono a’ latini detti «greges operarum» e poi «greges servorum», sopra i quali pastori sursero i re, a’ quali Omero da’ l’aggiunto perpetuo di «pastori di popoli». Le favole di Dafne, delle muse, di Parnaso, del Pegaso, d’Ippocrene si sono sopra spiegate.
vi
[420] Vulcano è il principio del fuoco, necessarissimo agli usi umani: sicché dovette essere il quinto dio delle genti maggiori, perché è una necessitá umana che poté non intendersi quando non poterono non farsi sentire la sete e ’l puzzore de’ cadaveri. Però egli è ’l fuoco di tanta utilitá nella vita che, oltre l’acqua,
è l’altro elemento delle cose sagre e quindi di tutte le altre civili profane: onde a’ romani restarono l’acqua e ’l fuoco a significare la comunanza della cittá, che appo i medesimi anticamente s’acquistava co’ matrimoni solenni celebrati con l’acqua e col fuoco, e si perdeva con l’«interdetto dell’acqua e del fuoco».[421] L’istesso è ’l principio dell’armi, che fabbrica co’ ciclopi nelle prime fucine, che furono le selve alle quali i padri giganti diedero il fuoco. E le prime armi si sono truovate sopra essere aste di alberi bruciate in punta, osservate buone a ferire, con le quali, appo gli storici romani, si leggono aver armeggiato le barbare nazioni del Settentrione e furono ritruovati armeggiare gli americani. Questo, e non altro, è ’l fuoco che i giganti atterrati mandano da sotto i monti, ed è quello onde vomitano fiamme l’Idra, i dragoni d’Esperia e di Ponto, il lione nemeo, che tutti, come sopra abbiamo detto, significano la terra ridutta col fuoco alla coltura. Alle quali favole aggiugniamo qui la Chimera, che è la piú ben intesa di tutte, con la coda di serpente e ’l capo di lione, che vomita fuoco, uccisa da Bellerofonte, che a questo tempo è da porsi: che dovette essere altro Ercole in altra parte di Grecia. Talché anche a questo tempo sono da porsi Cadmo, che uccide la gran serpe, e Bacco, che doma serpenti, perché nulla importava a fondare la nazione greca che si stordiscano i serpenti col vino.
[422] Gli occhi poi, uno per fronte a’ ciclopi, furono queste terre bruciate e poi arate da’ giganti, e dicevasi «ciascun gigante col suo occhio», cioè con sí fatta terra sboscata e colta. Che fu il luco di Romolo, dove egli aprí l’asilo, detto da «luci», «occhi», per uniformitá d’idee con quelle de’ greci di questi tempi. Le quali due tradizioni delle selve sboscate e dell’armi truovate da’ giganti padri di famiglie giunsero ad Omero sí tronche e svisate che se ne fece quella sconcezza che Ulisse con la trave infuocata in punta accieca l’occhio di Polifemo, nel quale pur Platone avvertisce i primi padri di famiglia nella storia poetica. Che è una delle ripruove delle tre etá de’ poeti eroici innanzi Omero, che sopra abbiamo truovato avergli tramandate le favole alterate, sconcie, oscurate e corrotte. Quindi restò a’
latini «lucus» per bosco sacro, ed a’ poeti il luco sempre va congiunto con l’altare di Diana: che furono l’acqua e ’l fuoco elementi del mondo civile. Onde i fisici poi vi ficcarono essi la loro favola: che l’acqua e ’l fuoco fossero da’ poeti teologi stati intesi gli elementi del mondo naturale; e gl’infelici filologi latini, osservando i boschetti sagri de’ loro tempi, come de’ nostri, che dilettano con le dense ombre, rifuggirono al luco, veramente asilo da essi aperto alla loro ignoranza, che è l’antifrasi, e dissero appellarsi «luco» «perché non luce»!vii
[423] Saturno deve essere stato il sesto dio delle genti vecchie. Perché dopo il fuoco dato alle selve — che bisognò avvenire nel tempo d’está, ch’erano giá terre secche dagli accesi soli — dovettero per fortuna gustare i granelli brustoliti del frumento, e, avvertendoli piacevoli al gusto ed utili al mantenimento della vita, che innanzi il dragone della terra, sempre vegghiante, custodiva tra le sue spine e dumi, si diedero a coltivare le terre. Egli è padre di Giove, in quanto Giove nacque tra’ postati in certe terre, che poi si ararono e seminarono; ma è figliuolo di Giove, in quanto Giove è re e padre di tutti i dèi, i quali fe’ egli nascere tra gli uomini con la religione degli auspíci. Egli è il principio de’ seminati, che da «satis» fu detto «Saturno» a’ latini: quindi principio della cronologia, dal tempo, onde fu detto Χρόνος a’ greci, la quale, come sopra si è dimostro, cominciò a numerare gli anni con le messi.
viii
[424] Marte è principio delle guerre, per le quali i padri ammazzavano i ladri empi che rubar volevano le biade. E i campi delle biade cominciarono a fare campi d’arme e battaglie per quello che sopra ragionammo dell’origine de’ duelli. E, come nato dopo Saturno, deve essere la settima divinitá dello stato delle famiglie.
ix
[425] Vesta è madre di Saturno, in quanto significa la terra, e, come tale, è madre de’ giganti, ma però pii, che, per le sepolture degli antenati, dicevano essere figliuoli della terra; ed è madre degli dèi che si dissero «indigetes», i dèi natii di ciascuna terra. All’opposto, è figliuola di Saturno in quanto significa il principio delle ceremonie sagre, delle quali tutte fu la prima di custodire sulle crudeli are il fuoco dato alle selve, rubato per Prometeo dal cielo, che all’erbe secche da’ caldi soli di está, scosso dalle vene della selce, attaccollo. Onde cosí gli ancíli scesero dal cielo a’ romani, che non dovettero essere scudi ma aste d’alberi bruciate in punta, come il fuoco scese dal cielo a’ greci, che poi custodirono le vestali romane, e, spento, in forza di vetri ustòri si dovea riaccendere dal cielo.
[426] La seconda fu di consecrare agli dèi sulle terre arate i ladri delle messi. E qui cominciano le orazioni, le obtestazioni e le consecrazioni, che sopra dimostrammo essere state le sollennitá de’ primi giudizi sotto i governi divini; ed i rei furono i primi «anatemi» a’ greci. Onde senza scienza i filologi pur dissero che «ara» sia detta perché sopra quella s’impone ἀρά, il voto, che venne da Ἄρης, Marte, che uccideva tai voti che Vesta sacrificava: da’ quali a’ latini restarono «hostiae» da «hostis», da questi primi nemici, e «victimae» da «victus», da questi primi vinti nel mondo.
[427] La terza fu di sacrificare col farro: onde Vesta, come nata dopo Saturno e Marte, dovette essere l’ottava divinitá delle genti maggiori. Dal farro che consacra Vesta a Giove fu il farro gran parte delle divine cerimonie a’ romani, come i sacrifici detti «farracia»; e di farina, detta dal farro, impastavano le fronti alle vittime, ne restarono le «nozze confarreate» a’ sacerdoti romani, perché da principio tutti i nobili erano sacerdoti.
[428] Ella altresí è Opi, il principio dell’aiuto o della forza, che implorarono i vagabondi empi che ricorrevano agli asili aperti da’ primi fondatori delle cittá (dove fu il primoconfugere ad
aras de’ destituti di Pufendorfio, inseguiti alla vita da’ violenti di Obbes), ove sursero le clientele che noi sopra ragionammo; e, con esse, le famiglie cominciarono a comporsi di altri che di soli figliuoli, per gli princípi che ne sono stati sopra scoverti. Dalla quale Opi vennero le prime repubbliche di «ottimati». Per lo quale aspetto la stessa Opi, qual è Rea a’ latini, tal è Cibele o Berecinzia de’ cureti, o sacerdoti armati d’aste, a’ greci: gli stessi che noi mostrammo essere stati i quiriti a’ latini.[429] È Cibele o Berecinzia coronata di torri poetiche, la qual corona si dice «orbis terrarum» a’ latini, che è il mondo delle nazioni. Cosí Vesta è la dea degl’imperi civili che si esercitano dentro quello che in ragion civile si dice «territorium», ben dettoa «terrendo»: ma non giá de’ littori, che fanno sgombrare la moltitudine per dar luogo al podestá, come cianciano gli etimologi (perché nacque ciò che si appella «territorium» quando i popoli erano piccioli e radi); ma da ciò: che i forti facevano sgombrare gli empi ladri delle biade da’ loro campi. Onde è «terrere» e quindi «territorium» da quelle che i poeti dissero «turres», quasi «terres», che coronano Berecinzia, che furono le prime «arces» nel mondo, onde sono «arcere» ed «arma», che da prima dovettero essere, come porta la natura, per la sola difesa, nella quale consiste il vero uso della fortezza. Le quali voci hanno una comune origine con le «are», le quali sono pur custodite da Vesta. E qui si truova la prima origine del diritto delle genti che appellasi «postliminium», che godono gli schiavi che «intra arces sui imperii se recipiunt». In una di queste poetiche torri è chiusa Danae, in grembo alla quale Giove, disceso in pioggia d’oro poetico, cioè di frumento, genera Perseo, grande eroe di Grecia, cioè con le nozze celebrate col farro.
[430] Ella è Cibele o Berecinzia sopra un cocchio tratta da que’ lioni de’ quali la voce «ari» siriaca diede il nome ad innumerabili cittá nell’antica geografia, ed ora caricano le insegne di tanti popoli.
[431] Per le quali cose dimostre, Vesta fu la religione armata e magnanima del primo mondo gentile.
x
[432] Venere è il principio della bellezza civile, onde sono belli Teseo, Bacco, Perseo, Bellerofonte; e Ganimede, che è rapito dall’aquila (ha la scienza degli auspíci), è ministro alla mensa di Giove (ministra a Giove co’ sacrifici): la qual favola truovò acconcia Platone a confermare la vita divina de’ filosofi che meditano nelle veritá astratte ed eterne. A sí fatti belli si oppongono i mostri, nati da’ vaghi concubiti; sicché è la bellezza della quale volevano belli i parti loro gli spartani: altrimente, gli gittavano dal monte Taigeta.
[433] L’idea di Venere si destò avvertendosi, gli eroi (de’ quali fu carattere Venere maschia) e l’eroine, belle al confronto della bruttezza degli uomini e donne che dalla bestiale libertá si ricevevano a’ loro asili. Sicché Venere dovette nelle menti greche nascere dopo Opi, e però essere la nona divinitá delle case antiche. Questa è Venere eroica, nata in terra figliuola di Giove ed altrove di Saturno. E, coverta le vergogne, è Venere pronuba, nume altresí delle nozze sollenni; e ’l cesto, che la cuopriva, dovette prima essere di frondi, poi di pelli, indi di rozzi panni, che finalmente i poeti corrotti intesserono di tutti i fomenti della libidine. Di questa Venere è figliuolo Amore alato, Amore con gli auspíci, l’amor coniugale: bendato gli occhi per quella ragione onde Venere si cuopre col cesto, fornito della fiaccola di quel fuoco con cui i romani contraevano le nozze «acqua et igni», la stessa che la fiaccola d’Imeneo, la quale è di quelle spine che bruciarono allo ’ncendio delle selve. Che è mitologia piú propia di quella: che i violenti di Obbes riflettessero alle fiamme ed alle punture amorose che si fan sentire dalla delicatezza del piacere de’ sensi. Di questa Venere sono ministre le Grazie, che sono gli uffici civili: onde a’ latini restò «gratia» per «caussa», appo quali «caussa» significa l’istesso che «affare», «negozio». A questa Venere eroica sono consecrati i cigni, pur sacri ad Apollo, che canta gli auspíci alle nozze, in uno de’ quali cangiossi Giove e
fecondò l’uovo onde nacquero Castore e Polluce, cioè con gli auspíci di Giove. E di questa Venere nasce, di Anchise, Enea, cioè da Venere pronuba, Venere onesta, nume de’ matrimoni sollenni.[434] Altra è Venere plebea, nata dal mare, di cui è figliuolo Amore nudo di ale, cioè senza auspíci: carattere delle donne plebee oltramarine, che, venute da piú colte nazioni, sembravano piú leggiadre e gaie di esse eroine greche; e, perché era dea de’ congiugnimenti naturali, restò poi a’ fisici per significare la natura: la qual differenza de’ due amori truovò acconcissima Platone a ragionare dell’amor divino e del bestiale. A questa Venere sono sacre le colombe, che erano auspíci minori e plebei a’ romani, come le aquile auspíci maggiori e de’ nobili: onde male le usò Virgilio nel fingerle numi del suo Enea. Ed a questa Venere è consecrato il mirto, di fronda meno nobile che l’alloro, perché di mirto abbondano le terre marittime, per significare il mare, donde ella venne.
xi
[435] Minerva è il principio degli ordini civili, nati alle sollevazioni de’ clienti: laonde deve esser nata lunga etá dopo di Opi, la quale era nata nel tempo che i vagabondi empi implorarono l’aiuto de’ forti ed erano stati ricevuti ne’ loro asili; e ben anche dopo di Venere, che, cosí, può ella essere la bellezza civile per natura, cioè l’ordine naturale. Perché gli eroi trattavano con giustizia i ricoverati, e sí celebravano tra gli uni e gli altri le Grazie, e cosí erano per natura eroi; ma, poi che divennero tiranni, la provvedenza, perché si conservasse il genere umano, il quale senza ordini non può conservarsi, alle sollevazioni de’ clienti fe’ nascere l’ordine civile, che è ’l senato di ciascuna cittá, il quale sempre da per tutto fu la sapienza delle repubbliche. Onde Minerva è la decima delle divinitá maggiori.
[436] Le cittá a questo punto di tempo e con questa guisa nacquero tutte sopra due ordini, uno di nobili, altro di plebei, — che, per la volgare divisione de’ campi che narrano i giureconsulti,
non han potuto vedere da’ lor princípi i politici; — e nacquero tutte dalla moltitudine per lo desiderio che ha di essere governata con giustizia, il qual desiderio è la materia eterna di tutti i governi (ed è forse la cagione perché le nominazioni de’ re eroici si facevano da esse plebi, come sopra dimostrammo de’ re romani); e si fermarono tutte sopra Minerva, cioè sopra ordini che debbano governare l’errante moltitudine con civile sapienza, che civile sapienza non è se non è assistita da tutte le civili virtú: che è la forma eterna di tutti gli Stati. Appruovano sí fatto nascimento delle repubbliche queste due loro eterne propietá: che le plebi, se sono trattate superba crudele ed avaramente, vogliono novitá, e che i nobili, ricchi e potenti nelle mosse degli Stati, uniscono i loro interessi alla patria, ed allora sono propiamente «ottimati» o «patrizi»: perché per la patria usano avvenenza, liberalitá e giustizia alle plebi. Che è la ripruova che le debbiano anche usare negli Stati quieti: lo che se essi facessero, le repubbliche sarebbero beatissime e quindi eterne.[437] Minerva è nata indi che Vulcano, con le armi che aveva fabbricate, apre il capo (apre la mente) a Giove, carattere de’ padri e re, ad unirsi in ordini armati per atterrire i clienti uniti in plebi contro essoloro: la qual mitologia è piú convenevole a questi semplicioni di Grozio che non quella della divina sapienza, figliuola dell’onnipotenza, che intende se stessa e quindi si porta ad amarla coll’amore della sua divina bontá: che fu il piú sublime di quanto mai in divinitá seppe pensare Platone. Né l’oliva è sacra a Minerva perché agli scempioni di Grozio abbisognasse leggere alla lucerna, e quando le lettere volgari vennero dopo Omero, ma perché l’umana utilitá dell’olio fu da intendersi nel di lei tempo. Né l’è sacra la civetta, uccello notturno, perché la notte è buona a meditare i filosofi, ma per significare la terra attica che ne abbonda.
[438] Perché Omero quasi sempre Minerva appella «guerriera» e «predatrice», «consigliatrice» di rado: ond’è Minerva consigliatrice nella curia, l’istessa è Pallade nell’adunanza, l’istessa Bellona nelle guerre. Armata di asta, di quell’aste d’alberi
bruciate in punta; ed ha scudo caricato del teschio di Medusa, con capigliatura prima d’oro poetico, cioè delle secche biade, che con bella metafora dissero «capelli d’oro della terra», poi di serpi, che sono i domíni sovrani delle terre de’ padri di famiglia uniti in ordine: col quale scudo Perseo insassisce i nemici (con la crudeltá, delle pene eroiche atterrisce i rei di duellione o sia di guerra fatta alla patria, che furono i primi nimici pubblici, onde, condannati, divenivano schiavi della pena, come comanda Tullo Ostilio concepirsi da’ duumviri la crudele e vil pena contro di Orazio uccisore della sorella, reo di duellione, che «lex horrendi carminis» viene acclamata da Livio). Lo scudo di Perseo è terso come uno specchio, nel quale i riguardanti insassiscono, perché queste pene furono da prima παραδείγματα a’ greci ed «exempla» a’ romani, e le pene severe ne restarono dette «esemplari», e, da questi «ordini», «ordinarie» le pene di morte.[439] Minerva, appo Omero, vuol congiurare contro Giove perché si porta con ingiustizia verso i greci ed a compiacenza verso i troiani: della qual cosa niuna meno si conviene alla sapienza civile, posto che Giove sia re monarca. Ma del governo di Giove a’ tempi di Omero si teneva che fusse aristocratico, perché tal forma universalmente si celebrava ne’ tempi eroici: onde esso Omero fa Giove dire a Teti che esso non può contraffare a ciò che è stato una volta dal gran consiglio celeste determinato. Cosí parla un re aristocratico: per lo qual luogo di Omero finsero gli stoici esser Giove soggetto al fato. E se egli altrove fa da Ulisse dire alla plebe ammotinata nel campo a Troia che è migliore il governo di un solo, riflettano i politici che ’l dice in guerra, nella quale essa natura porta che ’l governo sia monarchico, nella quale «non aliter ratio constat quam si uni reddatur». E la favola della gran catena, di cui Giove dice che, se tutti gli uomini e i dèi si attenessero alla parte opposta, esso solo dall’altra gli si strascinerebbe dietro tutti, ivi vuol dire la forza degli auspíci. La qual catena se gli stoici contendono essere la gran serie eterna delle cagioni, vedan pure che non rovinino, perché cosí Giove esso disporrebbe de’ fati.
xii
[440] Mercurio è il principio de’ commerzi, ed egli si cominciò ad abbozzare dal tempo che i primi commerzi furono de’ campi dati da’ padri a’ clienti a coltivare con la mercede del vitto diurno. Ma surse tutto dopo Minerva: sicché egli è l’undecimo dio delle genti vecchie, perché egli è il principio della legislazione, in quanto i legislatori propiamente furon quelli che portavano e persuadevano, non di quelli che concepivano le leggi, cui principio è Apollo. Quindi Mercurio è ’l principio delle ambascerie, e nasce con l’eterna propietá d’esser mandato da’ sovrani, che porta dall’ordine regnante alle plebi le due leggi agrarie, significate con le due serpi avvolte al caduceo — che sono i caratteri de’ due domíni delle terre, bonitario e civile — con in cima due ale, per significare i due domíni inferiori soggetti, in forza degli auspíci, al dominio eminente de’ fondi: onde gli eroi, che l’ebbero, furono detti «fundare gentes», «fundare urbes», «fundare regna». Lo stesso è ’l principio della lingua dell’armi, con la quale comunicano il diritto delle genti tra loro le nazioni, e, sí, è il principio della scienza del blasone che sopra abbiamo ragionata.
xiii
[441] Nettunno finalmente è ’l principio della navale e della nautica, che sono i ritruovati ultimi delle nazioni. Nel cui tempo cominciano le guerre marittime coi corseggi: che è ’l tridente di Nettunno, che fu un grand’uncino da afferrar navi, come vedremo appresso, che fa tremare le terre di Berecinzia. Che è mitologia piú propia di quella che appena ora è ricevuta da’ fisici, che l’acqua dell’abisso immaginato da Platone nelle di lei viscere faccia i tremuoti.
Capo vii
Uniformitá dell’etá degli dèi
tra le antiche gentili nazioni.
[442] Questa etá degli dèi corre tutta dentro il tempo oscuro a Varrone, perché Varrone, per gli volgari princípi della poesia, credette tutte le favole degli dèi finte di getto da Orfeo e da altri poeti eroi della Grecia. Per lo qual errore ci sono stati nascosti i princípi di tutta l’umanitá gentilesca.
[443] Perché i dèi delle genti maggiori di Grecia convengono con quelli dell’Oriente: che, portati in Grecia da’ fenici, furono coi nomi dei dèi della Grecia innalzati alle stelle erranti; onde lo stesso dee dirsi dei dèi de’ fenici medesimi, e resta intendersi il medesimo dei dèi degli egizi. Dipoi questi stessi dèi, sbalzati in cielo, essendo stati portati da Grecia in Italia, vi furono disegnati coi nomi de’ dèi del Lazio. Onde si dimostra che gli stessi princípi ebbero le genti latine che i greci, i fenici, gli egizi e i popoli d’Oriente. Altronde, i dèi furono con isconcia situazione allogati alle stelle erranti, che agli occhi naturali sono piú insigni, e nel lume e nel moto, delle fisse, alle quali furono allogati gli eroi, perché l’erranti dovettero essere osservate prima delle fisse: onde l’etá degli dèi fu prima di quella degli eroi, e la poesia divina nacque innanzi l’eroica, come certamente Esiodo fu innanzi di Omero. Adunque queste nazioni tutte si finsero esse gli dèi da se stesse, non giá che fussero stati loro imposti da’ Zoroasti, da’ Trimegisti, dagli Orfei, quali sono stati finora immaginati, de’ quali le genti latine non ebbero alcun simigliante; ma queste nazioni furono esse a se stesse i Zoroasti, i Trimegisti, gli Orfei, come abbiamo sopra dimostro. E questo sia altro saggio della storia ideale eterna da noi sopra qui divisata.
Capo viii
Etá degli eroi di Grecia.
[444] Dentro questa etá degli dèi de’ greci si vanno tratto tratto formando i caratteri de’ loro eroi politici natii dentro terra (come quindi a poco vedremo ove si spiegherá quello di Ercole), mentre dentro la medesima etá vi vengono di eroi politici stranieri dalle marine. Imperciocché per quello che sopra ragionammo del propagamento delle nazioni, mentre corre l’etá degli dèi a’ greci, le turbolenze eroiche di Egitto, di Fenicia, di Frigia vi spingono le loro nazioni con Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope nelle marine: dove altri restano sopra esse riviere, come certamente Cecrope; altri si spingono dentro terre infelici e, in conseguenza, ancor vacue, come Cadmo nella Beozia.
i
[445] Ella incomincia questa etá degli dèi di Grecia da Giapeto, che è ’l Giafet figliuolo di Noé, il qual venne a popolare l’Europa, e corre lo spazio di cinquecento anni. Però, come dentro l’etá degli dèi si formarono i caratteri degli eroi politici, come si è dimostro, cosí egli si dovettero ancora abbozzare quegli degli eroi delle guerre; e, poiché, come abbiamo sopra veduto, le nazioni mediterranee furono prima delle marittime, qui ci viene a lasciare un gran vuoto la storia favolosa, che incomincia il secolo eroico della spedizione marittima di Ponto. Ella però ci si dá pure a supplire con quello: che «ladrone», come abbiamo sopra osservato, era titolo orrevole di eroe, col quale Esone saluta Giasone. Che ne appruova i ladronecci eroici essere stati innanzi i loro corseggi per lo diritto delle guerre delle genti eroiche, che sopra truovammo di far le guerre non intimate. E li vedremo quindi a poco narrati nel carattere di Ercole.
ii
[446] Come l’etá degli dèi finisce con Nettunno, cosí l’etá degli eroi comincia coi corseggi di Minosse, il primo navigatore dell’Egeo, il cui minotauro deve essere stato una nave con le corna delle vele, come Virgilio disse, con l’istessa metafora, «velatarum cornua antennarum». Egli divora fanciulli e fanciulle attiche, per la legge della forza che doveva cosí spiegarsi da’ terrazzani attici, che non avevano ancora veduto navi. Il Labirinto è l’Egeo, chiuso da un gran numero confuso d’isole. Il filo è la navigazione, di cui autore è Dedalo alato, «cum remigio alarum» di Virgilio (e Dedalo è pur fratello di Teseo, e, aggettivo, significa «ingegnoso»). L’arte, Arianna, di cui Teseo s’innamora e poi l’abbandona, e si ferma con la sorella, che corseggiò con navi sue, e sí libera Atene dalla crudel legge di Minosse.
[447] A questi tempi è da rapportarsi Giove che rapisce Europa col toro, simigliante a quello di Minosse. Nella quale etá da questa favola s’intende che i caratteri degli dèi erano giá passati a significare gli uomini, per quelle propietá per le quali gli uomini da prima avevano fantasticato essi dèi: come Giove per la propietá di re degli dèi poi qui significò l’ordine regnante degli eroi che corseggiavano. Che è un canone assai importante di mitologia.
[448] A questi stessi tempi è da rapportarsi Perseo che libera Andromeda dall’Orca, che, come il minotauro nel labirinto dell’Arcipelago, cosí inghiotte donzelle per lo spavento de’ corsali incatenate agli scogli, come vedemmo sopra Prometeo e Tizio incatenati alle rupi per le spaventose religioni: onde poi gli spaventati, con voci convenute, si dissero «terrore defixi». E fa Perseo quest’impresa nell’Etiopia, come sopra spiegammo, nella Morea bianca, che ci restò detta il Peloponneso: dove essendo la peste, ne preservò Ippocrate la sua isola di Coo, posta nell’Arcipelago. Che se l’avesse voluta preservare dalla peste degli abissini, egli arebbe dovuto preservarla da tutte le pestilenze del mondo.
iii
[449] Siegue la spedizione navale di Ponto, overo i corseggi in quella parte del mare di Grecia che poi diede il nome a tutto quel mare, come si è sopra dimostro ne’Princípi storici della geografia. Nella quale impresa convengono Ercole, il massimo degli eroi di Grecia, Orfeo, Anfione, Lino, tutti e tre poeti eroi, Teseo e ’nfin Castore e Polluce, fratelli d’Elena. Questi poeti eroi, col cantar loro il potere degli dèi negli auspíci, riducono le fiere nelle cittá che si erano sollevate nelle turbolenze eroiche di Grecia. Cosí Anfione ne alza le mura di Tebe, che pur trecento anni innanzi aveva Cadmo di giá fondata: alla stessa fatta appunto come da Roma, fondata pur da trecento anni dopo, Appio Claudio, nipote del decemviro, alla plebe romana che pretende le ragioni de’ nobili, canta, appo Livio, il potere degli dèi negli auspíci, de’ quali erano dipendenze le ragioni de’ padri, de’ quali essi non potevano profanare la scienza e le cerimonie a’ plebei, che «agitabant connubia more ferarum». Cosí questi poeti eroi fondano overo stabiliscono le genti di Grecia, ma nel tempo, come si è sopra dimostro, che le genti si componevano di soli eroi. Adunque, perché in questi tempi in Grecia fu dibattuto il diritto delle genti eroico, nelle quali contese gli eroi restaron superiori, perciò tal etá fu detta degli eroi di Grecia.
iv
[450] Succede alla spedizione di Ponto la guerra troiana, nella quale si collegò per natura la Grecia, come fu sociale la guerra de’ sabini contro i romani, come si è dimostro di sopra. Sicché tal guerra dovette essere di corseggi di troiani nelle marine di una parte di Grecia, la quale dovendo essere detta allora di «achei», spiegatosi poi tal nome per tutta la nazione, cotal errore portò ad Omero che vi fusse la Grecia tutta confederata. Il qual nome, ristretto finalmente a quella parte che
poi restò detta «Acaia», vi fe’ surgere una repubblica, singolare tra gli antichi, di piú cittá libere unite in un corpo, che fu la repubblica degli achei, simigliantissima a questa de’ nostri tempi delle Provincie unite di Olanda.v
[451] Dopo la guerra troiana avvengono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Diomede, d’Antenore, di Enea, e, sopra tutt’altri celebrati, quegli d’Ulisse, de’ quali altri restano in terre straniere, altri ritornano alle loro patrie: che devono essere fughe di eroi co’ loro clienti vinti o premuti da contrarie fazioni in contese eroiche dintorno agli auspíci e le loro dipendenze. Appunto come Appio Claudio, che ne tramandò la sua originale superbia alla casa Appia, premuto da fazion contraria in Regillo, a’ consigli di Tazio si portò co’ suoi vassalli in Roma a’ tempi di Romolo, come pur narra Suetonio.
[452] Cosí i proci, che invadono la reggia d’Ulisse, cioè invadono l’ordine regnante degli eroi, poi ne giunsero col nome di tanti regi ad Omero. Gli divorano le sostanze, perché vogliono loro appropiarsi i campi, che sono in ragion degli eroi: le quali veritá oscurate fanno questa la piú impertinente di tutte le greche favole. Vogliono finalmente le nozze di Penelope, come i plebei romani, dopo comunicato loro il diritto ottimo de’ campi con la legge delleXII Tavole, vollero poi il connubio de’ padri nella storia romana. E in una parte di Grecia si serbano le nozze sollenni tra gli eroi, e si conserva casta Penelope ed Ulisse appicca i proci; in altra Penelope si prostituisce loro e ne nasce Pane, mostro di diverse nature: come i padri romani dicono alla plebe, con la fedele espressione di Livio, che chi nascerebbe da’ matrimoni di plebei fatti con gli auspíci de’ nobili, egli nascerebbe «secum ipse discors», «di discordanti nature»: la qual favola finora ha tanto esercitato i mitologi.
[453] Questo Pane, carattere delle discordi nature, afferra Siringa, carattere dell’eroine — detta dalla «canzone», con voce siriaca,
«sir», onde sono anche dette le sirene, cioè con gli auspíci che cantavano gli oracoli (onde vennero le canzoni alle nozze fin da’ tempi di Achille, nel cui scudo le narra Omero); — e Siringa si cangia in canna, pianta poco durevole e vile (ma Dafne, ferma da Apollo, si cangia in arbore nobile e sempre verde); e Pane, oscuratasi questa favola, restò co’ satiri a suonare la sampogna fatta di canne ne’ boschi (e con la loro sfacciata lascivia non celebrano cittá né fondano nazioni). Questa però deve essere favola delle contese eroiche di Siria confusa con quelle di Grecia, per ciò che si è ragionato nell’Etimologico delle voci d’origine straniera.[454] Ma istorie natie ne sono quelle delle quali celebre è la favola del pomo della Discordia, significante prima le messi, quindi i campi, finalmente i connubi, il qual primo frutto dell’industria dissero «pomi» sul trasporto de’ frutti della natura che avevano innanzi còlto l’está, de’ quali soli avevano idea. È ’l pomo caduto dal cielo, perché venne di séguito al fuoco dal cielo per Prometeo rapito: per cui entrano in contesa le tre dèe: Venere, però plebea, cioè le plebi di Grecia, che vuole prima il dominio de’ campi da Pallade, cioè dagli ordini degli eroi in adunanza; poi da Giunone, dea delle nozze sollenni, pretende i connubi e, ’n conseguenza de’ connubi, gl’imperii, come nella storia romana. Imperciocché il motto «pulchriori detur» e ’l giudizio di Paride, per fortuna, Plutarco, ma a proposito de’ nostri princípi, nota che i due versi, che soli in tutta l’Iliade l’accennano, non sono d’Omero, perché sono di poeta eroico de’ tempi giá effeminati, che gli venne appresso. Né a’ tempi d’Omero erano state ritruovate le lettere volgari, come vedemmo altrove, che si potessero iscrivere nel pomo: al cui detto ora qui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di tal forma di lettere, e la lettera insidiosa a Bellerofonte egli dice scritta per σήματα.^||/ [455] Istorie pur ne sono le favole d’Issione, di Tizio, di Tantalo plebeo, o sia della plebe di Tantalo, perché i clienti prendevano il nome da’ loro incliti. I quali tutti si narrano nello inferno, che qui significa i luoghi bassi a riguardo del cielo, dove si
alzano le torri di Berecinzia, poste in alto presso alle sorgive de’ fonti, che nascono in luoghi eminenti: siccome, de’ tempi barbari ritornati, ne’ monti per lo piú si vedono piantate le terre forti, e sparsi per le pianure i villaggi. Di tanta altezza estimarono il cielo i fanciulli di Grozio! Che è il cielo che regnò in terra ed è il padre di tutti i dèi, che a’ tempi d’Omero erano un poco piú in suso saliti ne’ gioghi o cima del monte Olimpo. Per lo qual cielo corrono Perseo e Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a’ latini «volitare equo», «andare correndo a cavallo».[456] Onde si spiega la favola, che pur è istoria di queste eroiche contese: che Giove con un calcio precipita giú dal cielo Vulcano plebeo, che si vuol frapporre tra Giove e Giunone mentre piatiscono: ma, per la nostra arte critica, non tra loro, ma con essolui, che pretende le nozze di Giunone con gli auspíci di Giove, e Vulcano ne restò zoppo (ne restò basso ed umiliato). Issione volta sempre la ruota, overo la serpe che s’imbocca la coda, la quale quindi a poco ritruoveremo la terra che si coltiva: la quale significazione oscuratasi, non intendendosi il cerchio, che fu il primo κύκλος, presero per la ruota, che pure è cosí appellata da Omero. Dal qual rivolgimento ne restò a’ latini «terram vertere» per «arare». Sisifo volta da giú in sú il sasso (la terra dura), e ne restò pure a’ latini «saxum volvere» per significare la «perpetua fatica». Tantalo è affamato delle vicine poma, le quali sempre si alzano in cielo, cioè nelle terre, poste in alto, degli eroi. Le quali favole poi i morali filosofi trovarono acconce a formare i ritratti degli ambiziosi, ingordi ed avari, i quali vizi non si sentivano nell’etá contenta delle sole cose necessarie alla vita.
[457] Ma la favola de’ proci di Penelope, oltre a quella di Ulisse che accieca Polifemo, è altra grave ripruova delle tre etá de’ poeti eroici innanzi Omero, che li tramandarono la storia delle genti di Grecia, per le cagioni che sopra ne scuoprimmo, corrottissima.
Capo ix
Uniformitá dell’etá degli eroi tra le antiche nazioni
dimostrata nel carattere d’Ercole.
[458] Per l’etá degli eroi corsa uniforme tra le altre nazioni antiche si arreca quest’altra dimostrazione filologica, fondata sopra due testimonianze di due intere nazioni: una degli egizi, che dicono, appo Tacito, che l’Ercole loro è il piú antico di tutti gli altri, che tutti avevano preso dall’Ercole loro il nome; l’altra è de’ greci, che in ogni nazione che conobbero vi ravvisarono un Ercole. Alle quali due gravi pruove degli egizi e de’ greci s’aggiugne l’autoritá di Varrone, il dottissimo de’ romani, che ne noverò ben quaranta, tra’ quali i piú celebri sono lo scitico (che contese di antichitá con l’egizio), il celtico, il gallico, il libico, l’etiopico, l’egizio, il fenicio, il tirio, oltre il famoso greco tebano; e delle genti latine fu il dio Fidio, come abbiamo sopra dimostro. Adunque da per tutte queste antiche nazioni corse l’eroismo con le medesime propietá, onde i loro Ercoli meritarono il medesimo nome dagli egizi, da’ greci e da Varrone. Che deve essere un gran saggio della storia ideale eterna da noi sopra disegnata, la quale è da leggersi con gli aiuti della nostra arte critica e degli etimologici sopra divisati e del dizionario universale che abbiamo conceputo pur sopra. Noi qui ne spiegaremo alcune favole, che appartengono al diritto naturale delle genti eroiche, in confermazione de’ nostri princípi.
[459] Comincia a formarsi il carattere di Ercole tebano nell’etá degli dèi fin dall’epoca di Giove, perché egli è generato da Giove e nasce col tuono di Giove; come Bacco, altro famoso eroe di Grecia, nacque da Semele fulminata, che sono il primo e secondo de’ nostri princípi dell’umanitá, perché tutte le antiche nazioni si fondarono sopra la giusta oppenione di una divinitá provvedente, e cominciarono da nozze certe e sollenni, che i gentili celebrarono con gli auspíci osservati nel fulmine di Giove.
[460] Certamente le grandi fatighe che egli fa incominciano dall’epoca di Giunone, per gli cui comandi le fa, cioè all’ammonimento delle bisogne famigliari. Tra le quali la prima fu nell’epoca di Diana, di uccider fiere per difenderne le famiglie.
[461] Quindi di scendere allo ’nferno e trarne fuora Cerbero: che bisognò che e’ facesse nell’epoca di Apollo, che ordinò le sepolture, perché lo ’nferno de’ primi poeti fu il sepolcro, siccome Ulisse di sopra la terra apertagli innanzi a’ piedi vede i passati eroi nello ’nferno, siccome Ercole allontana i cani da’ sepolcri. Che era il nostro terzo principio dell’umanitá, cioè quello di seppellire i morti, che da «humare», «seppellire», fu detta «humanitas». Fu Cerbero detto «trifauce» per significare forse l’Orco, divoratore del tutto, con un superlativo, quale restò a’ francesi, che, per ispiegarlo, aggiungono lo «tre» al positivo. Di tal fatta dee essere stato il tridente di Nettunno un grande uncino di corsali per afferrare le navi; il fulmine trisulco di Giove, che solca, fende potentemente. Uscito Cerbero alla vista del cielo, il Sole rimenò indietro il cammino: questo, per la scoverta che sopra ne abbiamo fatta, è un anacronismo del tempo che l’Orco e i cani divoravano gli umani cadaveri, nel quale non ancora vi era Apollo, che abbiamo sopra dimostro dio della luce civile, che, con le sepolture, ordina le genealogie e dá lo splendore alle prime genti overo alle case eroiche. Quindi scende pure allo ’nferno Teseo, che fonda il popolo ateniese; ancora scende allo ’nferno Orfeo, che fu detto fondatore della gente greca: perché tutte le nazioni dalla religione delle sepolture furono portate a ricevere l’anime de’ difonti con l’aspetto della divinitá; onde si dissero «dii manes» a’ latini, e quindi furono guidate a sentire l’immortalitá dell’anima, il quale comun senso delle nazioni Platone poi dimostrò.
[462] Dipoi uccide serpenti in culla, l’idra, il dragone di Esperia, il lione nemeo, che tutti vomitano fuoco: — nell’epoca di Vulcano dá fuoco alle selve, come abbiamo sopra spiegato.
[463] Nell’epoca di Saturno, che abbiamo dimostro essere la stessa che l’etá dell’oro, da Esperia — dall’Occidente di Attica, dove le ninfe esperidi certamente guardarono gli orti — riporta i
pomi d’oro — raccoglie il frumento: che è fatto degno d’Ercole, degno di greca storia, piú che gli aranci di Portogallo, istoria degna di ghiotti. A questa imitazione, Virgilio, dottissimo delle poetiche antichitá, disse le biade del frumento «ramo d’oro», che Enea va a truovare nell’antica selva della terra incolta, né può schiantarlo se gli dèi non glielo permettano (perché non raccoglievano il grano i vagabondi empi che non avevano gli auspíci); con quello va allo ’nferno a presentarlo a Dite, dio de’ tesori, de’ quali è nume ritruovatore Ercole, e vi vede i suoi antenati e la sua posteritá (che non potevano vedere i vagabondi empi, che non avevano il costume di seppellire gli umani cadaveri).[464] Quindi nell’epoca di Marte egli uccide mostri, cioè i vagabondi empi nati da’ nefari concubiti e sí di discordi nature: — uccide tiranni, cioè i ladroni delle messi, uomini senza terre, che vogliono occupare l’altrui, che furono i primi abbozzi de’ tiranni. E qui Ercole stabilisce il diritto eroico overo ottimo o sia fortissimo de’ campi con vindicargli da’ violenti ingiusti.
[465] Nell’epoca di Minerva egli lutta con Anteo — che è l’istoria delle contese eroiche, nelle quali gli eroi contesero comunicare a’ plebei il dominio de’ loro campi, — e, con innalzarlo in alto, il vince e l’annoda in terra: che dovette avvenire nell’epoca di Mercurio quando egli portò la prima legge agraria a’ plebei ammotinati e li rimenò nelle terre degli eroi, poste in alto, come si è detto piú volte sopra: con la qual legge sí fatti Antei rimasero attaccati alle terre, che da’ latini si dicono «glebae addicti», e da’ barbari ritornati si dissero «ligi» i primi vassalli rustici, dopo i quali vennero i feudi nobili. Ma niuno meglio spiega questa istoria eroica che l’Ercole gallico, che, con catena d’oro poetico, quale dicemmo il frumento, uscentegli di bocca, strascinasi dietro ligata per gli orecchi una gran turba di uomini: che è mitologia piú propia di quella che significhi l’eloquenza nel tempo che non parlavano ancora con voci convenienti le nazioni. E questa istessa storia deve esser significata dalla favola di Venere ignuda (Venere plebea), insieme con Marte pur ignudo (Marte non vestito di pelli di fiere,
Marte non eroico ma plebeo), che, appo Omero, da Minerva guerriera è battuto: che è il carattere de’ clienti, che guerreggiano sotto il comando degli eroi, come Ulisse li batte, ammotinati nel campo di Troia, con lo scettro d’Agamennone. E Venere e Marte dal mare (onde vennero i coloni oltramarini in terre di giá occupate) sono tratti nella rete (ne’ legami del nodo eroico) da Vulcano: dalla qual favola non intesa i poeti eroici corrotti appresso fecero Venere moglie di Vulcano, e sí finsero anche tra essi dèi gli adultèri. E ’l Sole (il dio della luce civile), per la nostra arte critica, non gli scovrí, ma covrí con lo splendore degl’incliti, come sopra dicemmo; e i dèi tutti ne fanno scherno, come i romani patrizi, quali vedemmo con Sallustio, facevano dell’infelicissima plebe nel tempo, che lo stesso Sallustio diceva, dell’eroismo romano. E questo è quello che sopra dicemmo che ’l nodo era l’impresa delle nazioni eroiche. Come Ercole sopra il nodo ordina la decima che restò detta «di Ercole», cioè il tributo de’ frutti della coltura, qual tra’ Germani l’osserva Tacito pagarsi da’ vassalli a’ loro príncipi: che sarebbe il censo di Servio Tullio, che poi, con l’enfiteusi, precarie e i feudi, con l’istesso nome ritornò co’ tempi barbari ritornati.[466] E della lutta con Anteo ordina un giuoco che restò pur detto a’ greci «del nodo», che dovette essere il primo de’ giuochi olimpici, de’ quali certamente si narra essere stato Ercole l’ordinatore. Onde, come indi ebbe il maggior suo lustro la greca nazione, cosí indi comincia la greca storia, la quale con le olimpiadi dá l’èra degli anni a’ greci, che prima avevano numerato con le messi. E ne’ circi ne restarono le mete, dette a’ latini da «meto», «mietere», come le «mete di grano» restarono dette agl’italiani: che è etimologia piú propia di quella che significhino il cono il quale descrive nel suo corso dell’anno il sole, che tardi poi intesero gli astronomi piú addottrinati. Siccome la serpe in cerchio imboccantesi la coda non poté agli eroi contadini significare l’eternitá, che a gran pena intendono i metafisici, ma significa l’anno delle messi che lo serpe della terra ogni dodici mesi s’imbocca: che poi non
intendendo, ne fecero la ruota d’Issione; onde restò detto l’anno «cerchio grande», da cui viene «annulus», «cerchio picciolo», il qual cerchio certamente non descrive il sole mentre va e ritorna dentro i due tropici.[467] Il vuoto de’ ladronecci eroici, che sopra dicemmo aver dovuto precedere agli eroici corseggi, egli ci è empiuto da Ercole per quella propietá di domar popoli e portarne la sola gloria e, in pruova della gloria, le prede in casa, come gli armenti d’Esperia o sia dell’occidente dell’Attica.
[468] Passa Ercole dall’etá degli dèi a quella degli eroi, e dall’epoca di Nettunno si congiunge alla spedizione navale di Ponto, cioè al tempo de’ corseggi eroici di Grecia, e si ritruova contemporaneo di Orfeo, Anfione, Lino, tutti compagni di Giasone, i quali tre sono sappienti in divinitá, che spiccano nelle contese eroiche con le plebi greche, che volevano comunicati i connubi degli eroi: le quali contese, perché vi si dibatté il diritto degli eroi, dánno il nome al secolo eroico. Appunto come sopra dimostrammo con Livio nelle medesime contese de’ padri con la plebe Appio nipote del decemviro essere stato l’Orfeo romano. Talché deve giá Ercole avere alle plebi greche comunicato il dominio ottimo de’ campi con la seconda legge agraria nell’epoca di Mercurio, come innanzi alla contesa del connubio de’ padri lo era stato comunicato alla plebe romana con la legge delleXII Tavole.
[469] Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del sangue del centauro pur detto Nesso, mostro delle plebi di due nature diverse, come lo spiega la storia romana appo Livio, cioè tra’ furori civili comunica i connubi eroici alle plebi e si contamina col sangue plebeo e muore, quale muore con la legge petelia l’Ercole romano, il dio Fidio, con la qual legge «vinculum fidei victum est», che dev’essere alcun motto di antico scrittore di annali, che Livio con quanta fede con altrettanta ignoranza rapporta. Perché egli è falso come finora ha giaciuto, celebrandosi pure tra’ romani dopo la legge petelia i giudizi co’ quali si costringevano i debitori; ma per li nostri princípi egli unicamente può esser vero nel sentimento che si sciolse il diritto
feudistico o sia diritto del nodo, overo del privato carcere nato dentro i primi asili aperti nel mondo, col quale Romolo aveva fondato Roma sulle clientele e Bruto aveva ritornata la libertá de’ signori per gli princípi sui quali abbiamo spiegata la storia romana antica.[470] Sí fatte turbolenze eroiche si vedono essere stata la piú gran materia della storia favolosa greca, la quale ci è narrata dalla storia certa romana antica con favella volgare. Lo che non dee recare maraviglia a chiunque rifletta che i romani custodirono scritta la legge delleXII Tavole e le altre che di tempo in tempo vennero appresso; ma gli atenniesi le mutavano ogni anno; gli spartani, proibiti di scriverle, le parlavano sempre con la lingua presente: onde tra loro si oscurarono prestamente le favole, che fu la lingua delle loro leggi e de’ loro costumi. Ma tra’ romani le favole dovettero passare intere da caratteri eroici all’espressioni volgari, come in tante occasioni abbiamo veduto con somma naturalezza esser passate le favole greche nelle volgari espressioni latine. E per queste istesse cagioni ha conservate piú intere le sue origini la latina che la greca favella.
Capo x
Etá degli uomini.
[471] E con lo sviluppo del nodo, come per la legge petelia a’ romani, tra tutte le nazioni antiche, per dir con Livio a tal proposito, «aliud initium libertatis extitit», «spiccò tutt’altro principio di libertá», che fu da per tutto la popolare, dalla quale poi le nazioni passarono sotto le monarchie, onde nella storia universale incomincia in Oriente quella di Nino. Che sono per gli nostri princípi le due forme di governi umani, per quell’arcano d’imperio sulle nazioni feroci che Tacito avverte essersi praticato da Agricola con gl’inghilesi, che esso esortava agli studi delle lettere umane con questo ben inteso motto: «et humanitas vocabatur, quae pars servitutis erat».
[472] Cosí il diritto eroico della gente romana sparse l’umanitá
nell’Affrica, nelle Spagne, nelle Gallie, nel Norico, Illirico, Dacia, Pannonia, Tracia, nella Fiandra, Olanda e fino nell’ultima del mondo Inghilterra, e vi cominciò l’etá degli uomini, che vengono naturalmente a tal forma di governi umani con la lingua epistolica o sia degli affari privati, overo favella volgare co’ parlari convenuti, dando essi popoli i significati alle voci dentro le comuni adunanze nelle repubbliche popolari, in comandando le leggi secondo l’equitá naturale, che sola intende la moltitudine; o nelle monarchie i príncipi da questa necessitá di natura: che, i popoli restando signori delle lingue, essi regnanti sono naturalmente portati a volere che le loro leggi siano ricevute secondo il comun senso della moltitudine, che sola intende l’equitá naturale. E sí agli eroi, come avvenne a’ patrizi romani, uscí naturalmente di mano la scienza delle leggi: onde le repubbliche aristocratiche si deono governare, piú che con le leggi, con gli ordini.[473] Cosí la cagione delle lingue volgari è la ragione perché le monarchie sono spezie di governo sommamente conforme alla natura delle idee umane spiegate, che è la vera natura degli uomini. Onde sotto le monarchie da per tutto si celebra il diritto che Ulpiano dice «ius gentium humanarum», ed i giureconsulti nelle loro risposte e gl’imperadori ne’ loro rescritti diffiniscono le cause di ragion dubbia per la setta non de’ tempi superstiziosi, non de’ tempi eroici overo barbari, ma de’ tempi loro, cioè, come per tutta quest’opera si è dimostro, per la setta de’ tempi umani, che furono le sètte tanto propie della romana giurisprudenza quanto le furono contrarie la stoica e l’epicurea. Per le quali sètte de’ tempi la provvedenza regolò sí fattamente le nazioni che il diritto romano si ritruovasse fondato sui princípi della platonica, la qual, siccome è la regina di tutte le pagane filosofie, cosí ella è la piú discreta serva della filosofia cristiana; e ’l diritto romano, nello stesso tempo, si ritruovasse altresí addimesticato, per dir cosí, a sottoporsi al diritto della coscienza a noi comandato dal Vangelo.

