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Giambattista Vico: Opere
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III: La Scienza Nuova Prima (1725)
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Principj di una Scienza Nuova
Conchiusione Dell’Opera

Conchiusione Dell’Opera

265 ―

[474] Cosí spiegato il carattere di Ercole, si hanno le origini delle nazioni antiche uniformi, tutte comprese in questa storia favolosa de’ greci, spiegataci per la storia certa romana, che ne supplisce la tronca degli egizi e ne rischiara l’affatto oscura dell’Oriente. I quali princípi devono precedere alla storia universale, che comincia dalla monarchia di Nino. Devono precedere alla filosofia, acciocché, con meditando la provvedenza, ragioni dell’uomo, del padre, del principe. Devono precedere alla giurisprudenza del diritto naturale delle genti dalla provvedenza ordinato. Onde si sono trattate finora senza princípi la storia affatto, la filosofia nelle parti che abbiamo dette, e la giurisprudenza del diritto naturale delle genti ne’ sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ed ad essi princípi diedero il guasto gli stoici col fato, gli epicurei col caso: il perché noi disperammo sul principio da’ filosofi e da’ filologi ritruovar questa Scienza, la quale ne ha dimostro la provvedenza essere l’ordinatrice del mondo delle nazioni.

[475] E, per conchiudere con l’esemplo onde ne incominciammo a ragionare, dagli auspíci, che furono creduti abbisognare per distinguere i domíni delle terre comuni del primo mondo sotto i regni divini, poi si passò alla consegna erculea del nodo sotto i regni eroici; appresso alla consegna del podere medesimo sotto i regni umani: che è il principio, progresso e fine del diritto naturale delle genti, con uniformitá sempre andante tra le nazioni, per finalmente intendersi il diritto naturale de’ filosofi, che è eterno nella sua idea e cospira col diritto naturale

266 ―
delle genti cristiane: che la volontá deliberata del signore di trasferire il suo dominio in altrui, e l’altrui volontá determinata a riceverlo, da entrambi sufficientemente significata, basta sotto il regno della coscienza, che è regno del vero Dio. Che era l’idea dell’opera, che tutta incominciammo da quel motto: «A Iove principium musae», ed ora la chiudiamo con l’altra parte: «Iovis omnia plena».

[476] Sí di fatto è convinto Polibio che, se non fussero state al mondo religioni, non sarebbero stati al mondo filosofi: tanto è vero il suo detto che, se fussero al mondo filosofi, non sarebbe bisogno di religioni! Si truova convinto di fatto Bayle che senza religioni possano reggere nazioni. Ché, senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialitá, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse e senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano.

267 ―

TAVOLE

269 ―

I
Tavola delle tradizioni volgari.

[477] Le quali sul principio, indirizzando noi quest’opera all’Universitá dell’Europa, riverentemente dicevamo doversi sottomettere alla critica severa di un esatto raziocinio metafisico; ed ove, nel libro primo, disperammo ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filosofi e da’ filologi, per far accorto il leggitore che sospendesse di ricordarlesi o immaginare soltanto brieve spazio di tempo quanto vi bisogna a leggere questi libri, perché, ripigliandole dipoi, esso da se stesso vi riconoscerebbe il vero che loro avea dato il motivo di nascere ed intenderebbe le cagioni onde ci vennero ricoverte di falso. Delle quali Giovanni Clerico, nella parte seconda del volume decimottavo dellaBiblioteca antica e moderna, all’articolo ottavo, nel riferire il libroDe constantia philologiae, che è una parte di altra opera nostra, che egli ivi rapporta, ove, per altri princípi e con ordine a questo tutto opposto, queste stesse tradizioni di leggieri si notano, ne dá il seguente giudizio: «Egli ci dá in accorcio le principali epoche dopo il Diluvio infino al tempo nel quale Annibale portò la guerra in Italia. Perché egli discorre in tutto il corso del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantitá di errori volgari, a cui uomini intendentissimi non hanno punto badato».

270 ―

[478] Or eglino sono i seguenti:

i

[479] Che furono in Grecia particolari diluvi l’ogigio e ’l deucalionio. — Furono tronche tradizioni del Diluvio universale.

ii

[480] Che Giafet fu il Giapeto de’ greci. — Fu la razza di Giafet mandata dal suo Autore coll’empietá nel divagamento ferino per l’Europa, onde in cotal parte di lei provennero le genti di Grecia.

iii

[481] Che i giganti de’ poeti furono uomini empi, violenti, tiranni, per metafora cosí detti. — Furono giganti veri. Empi tutti, innanzi che ’l cielo dopo il Diluvio la prima volta tuonò; poi violenti i restati nella comunion bestiale, che, a capo di tempo, volendo rubare le terre colte da’ giganti religiosi, furono gli abbozzi de’ tiranni.

iv

[482] Che i primi uomini gentili furono paghi di lor natura, e quindi innocenti e giusti, i quali facessero l’etá dell’oro, prima etá narrataci da’ poeti, quali, da sociniano, intende Grozio essere stati i suoi semplicioni. — Furono paghi de’ frutti della natura; ed innocenti e giusti, quali di sé e degli altri giganti narra Polifemo ad Ulisse, nel quale Platone avverte il primo stato delle famiglie. E l’etá dell’oro fu del frumento, da essi giganti ritruovato.

v

[483] Che gli uomini, finalmente fatti accorti da’ mali della vita comune, senza religione, senza forza d’armi, senza imperio di leggi, si divisero i campi con giustizia e, insino che sursero

271 ―
le cittá, co’ soli termini postivi, li possedessero con sicurezza. — Questa è stata propia nostra favola dell’etá dell’oro, perché i termini furono posti a’ campi dalla religione, come sta pruovato in quest’opera; e i fatti accorti da’ mali della vita, non comune ed umana, ma solitaria e ferina, furono gli empi scempioni di Grozio, inseguiti alla vita da’ violenti di Obbes, che, per esser salvi, ricorsero alle terre de’ forti religiosi.

vi

[484] Che la prima legge, come diceva Brenno, capitano de’ Galli, a’ romani, fu al mondo quella della forza, quale finora ha immaginato Tommaso Obbes fatta da altri ad altri uomini, e che perciò i regni, come nati dalla forza, con la forza debbansi conservare. — Ma la prima legge nacque dalla forza di Giove, estimata dagli uomini posta nel fulmine: onde i giganti s’atterravano per le grotte; dal quale atterramento, come si è dimostro nell’opera, provenne tutta l’umanitá gentilesca.

vii

[485] Che ’l timore fece nel mondo i primieri dèi, sull’idea di Samuello Pufendorfio che tal timore da altri fusse messo ad altri uomini: onde altri fanno le leggi figliuole dell’impostura, e che perciò gli Stati si debbano conservare con certi secreti di potenza e certe apparenze di libertá. — Ma il timore che essi giganti ebbero de’ fulmini fecegli andare da se medesimi, cosí permettendo la provvedenza, a fantasticare e riverire la divinitá di Giove re e padre di tutti i dèi: onde la religione, non la forza o l’impostura, è di essenza delle repubbliche.

viii

[486] Che ’l sapere riposto dall’Oriente fossesi sparso per lo resto del mondo con questa successione di scuole: che Zoroaste avesse addottrinato Beroso, Beroso Mercurio Trimegisto, Mercurio

272 ―
Atlante, Atlante Orfeo. — Ma questa fu la sapienza volgare, che dagli stessi princípi delle religioni andò propagandosi per la terra col propagamento di esso genere umano, il quale senza dubbio uscí tutto dall’Oriente. E la sapienza riposta pur dall’Oriente fu del pari portata per gli fenici agli egizi, a’ quali ne portarono l’uso del quadrante e la scienza dell’elevazione del polo; a’ greci, a’ quali portarono le figure geometriche, dalle quali poscia i greci formarono le lettere.

ix

[487] Che quindi Orfeo, col cantare a suon di liuto favole maravigliose intorno al potere degli dèi a’ selvaggi uomini della Grecia, avessegli ridutti all’umanitá e sí fondata le gente greca. — Questo si è ritruovato uno brutto anacronismo delle turbolenze eroiche di Grecia per cagione del dominio de’ campi, avvenute da cinquecento anni dopo esservisi introdotte le religioni e fondati popoli e regni.

x

[488] Per questa favola d’Orfeo, che prima fossono state le lingue volgari, poi quelle de’ poeti, sull’idea che noi abbiamo finora avuta che Orfeo di Tracia avesse comunanza di favella con gli uomini greci vagabondi per le selve: talché sopra la greca lingua volgare potesse lavorare trasporti poetici ed usare le misure del canto, perché, con la maraviglia delle favole, con le novitá dell’espressione e con la dolcezza dell’armonia, egli, dilettando i violenti di Obbes, gli scempioni di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, li riducesse all’umanitá. — Ma si è dimostro che senza religione esse lingue né potevano pur nascere.

xi

[489] Che i primi autori delle lingue furono sappienti. — Ma della prima e propia sapienza, che fu quella de’ sensi, come abbiamo qui dimostro ne’ princípi della ragion poetica.

273 ―

xii

[490] Che innanzi tutt’altre si fusse parlata una lingua naturale overo significante per natura, sull’idea che ’l favellare e ’l filosofare fosse una cosa stessa. — Tale si è dimostro essere stata la lingua divina de’ gentili sulle false idee de’ primi lor popoli poetici, che stimarono princípi del mondo civile sostanze o modi corporei, che credettero forniti di divinitá o sia d’intelligenza divina, e sí fantasticarono i dèi.

xiii

[491] Che Cadmo fenice ritruovò i caratteri. — Ma poetici.

xiv

[492] Che Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope avessero menate colonie in Grecia, ed i greci in Sicilia ed Italia. — Però, non per vaghezza di scovrire nuove terre e per gloria di propagarvi l’umanitá, ma, premuti ne’ lor paesi in turbolenze eroiche, per ritruovare salute e scampo.

xv

[493] Che in mezzo a questi Ercole, per vaghezza di gloria, fosse ito per lo mondo uccidendo mostri e spegnendo tiranni. — Però questo non fu un solo tebano, ma tanti Ercoli quante furono le antiche nazioni, come sta qui appieno pruovato.

xvi

[494] Che le prime guerre si fossono fatte per la sola gloria e riportarne per insegna le prede in casa. — Queste furono i ladronecci eroici: onde «ladrone» fu titolo orrevole di eroe.

274 ―

xvii

[495] Sulle cose immaginate di Orfeo, che i fondatori dell’umanitá greca, come Anfione, Lino ed altri detti «poeti teologi», fossero stati sappienti in divinitá, della spezie che, de’ tempi a noi conosciuti, funne principe il divino Platone. — Ma costoro furono sappienti nella divinitá degli auspíci o sia divinazione, che, da «divinari», fu a’ gentili la prima divinitá.

xviii

[496] In séguito dell’antecedente errore, che nascondessero altissimi misteri di sapienza riposta entro le favole: onde si è cotanto disiderata entro le favole la discoverta della sapienza degli antichi da’ tempi di Platone fino a’ dí nostri, cioè di Bacone da Verulamio. — Ma fuvvi da essi nascosta la sapienza di quella spezie che le cose sagre appo tutte le nazioni furono tenute occulte agli uomini profani.

xix

[497] E sopra tutti scuoprire la sapienza degli antichi in Omero, primo certo padre di tutta la greca erudizione. — Ma Omero fu sappiente di sapienza eroica. Che nell’Iliade propone per esemplo dell’eroica virtú Achille, che stima diritto tra deboli e forti non essere egualitá di ragione circa l’utilitá, come con Ettorre il professa. Ed in esemplo dell’eroica prudenza propone Ulisse nell’Odissea, che sempre proccura l’utilitá ingannando sí che mantenghi salva la riputazione delle parole.

xx

[498] Che le prime cittá nacquero dalle famiglie, intese finora di soli figliuoli. — Ma esse nacquero dalle famiglie propiamente cosí dette de’ famuli, che, se non fusse stato per gli primi loro

275 ―
ammotinamenti contro gli eroi, che facevano di essi aspro governo, non mai al mondo sarebbero surte esse cittá. Onde si dimostra che i patriarchi furono giusti e magnanimi, ché tra essi si conservò fino al tempo della Legge lo stato delle famiglie.

xxi

[499] Che il primo nome delle civili potestá fossesi in terra udito quello di «re», come finora abbiamo immaginato, monarchi de’ popoli. — Ma furono i padri di famiglia, come Omero nello scudo di Achille gli appella «re», e furono nelle loro famiglie monarchi, come si è pur qui dimostro.

xxii

[500] Che nella prima etá gli stessi fossono sappienti, sacerdoti e re, come, fin da Platone, che il desiderava, gli abbiamo immaginati sappienti di sapienza riposta. — Lo furono i padri nello stato delle famiglie; ma sappienti in sapienza d’auspíci.

xxiii

[501] Che i re si eleggevano dalla degnitá dell’aspetto e dalla prodezza della persona, sull’oppenione de’ discreti costumi dell’etá dell’oro che la moltitudine intendesse concordemente bellezza e merito. — Ma sí fatti re nacquero naturalmente nelle turbolenze de’ clienti, come si è sopra dimostro, nelle quali i piú robusti e i piú animosi de’ padri fecero capo ai nobili e li ressero in ordini per resistere a’ clienti uniti in plebi. Nel qual punto sursero le cittá.

xxiv

[502] Che ’l regno romano fosse stato monarchico mescolato di libertá popolare. — Ci ha finora ingannato il nome di «re». Perché il regno spartano per gli politici fu certamente aristocratico,

276 ―
e gli spartani per gli filologi ritennero assaissimo degli antichissimi costumi eroici di Grecia. Della qual forma di governo si è qui veduto il regno romano.

xxv

[503] Che Romolo ordinò le clientele, quali abbiamo finora immaginate che, per quelle, i nobili insegnassero le leggi a’ plebei, a’ quali per ben cinquecento anni appresso le tennero segrete, e tra essoloro le comunicavano per note overo caratteri occulti. — Ma Romolo per le clientele difese i plebei nella vita con ricoverargli all’asilo aperto loro nel luco. Da Servio Tullio in poi i padri li difesero nella possessione de’ campi da essi assegnati loro sotto il peso del censo. Dalla legge delleXII Tavole in appresso li difesero nella ragione del dominio ottimo, loro da’ padri per tal legge comunicato, ond’è la formola della revindicazione: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Nella libertá popolare tutta spiegata li difesero con assistere loro e difendergli nelle liti e nelle accuse.

xxvi

[504] Che la plebe romana fosse di cittadini fin da’ tempi di Romolo. — Tal pregiudizio ci ha impedito di leggere con giusto aspetto la storia e quindi di ben intendere il diritto romano antico. Perché il diritto di contrarre nozze giuste (ché tanto propiamente suona «connubium») fu da’ padri a’ plebei comunicato sei anni dopo la legge delleXII Tavole.

xxvii

[505] Che le nazioni barbare guerreggiarono disperatamente per la loro libertá. — Egli è vero: perché gli eroi guerreggiavano per la loro libertá di signori; le plebi guerreggiavano per la loro libertá naturale, onde avevano naturale o bonitario dominio de’ campi, che godevano sotto i loro naturali signori, che arebbono perduta con la schiavitú.

277 ―

xxviii

[506] Che Numa fosse stato discepolo di Pittagora. — Che anche da Livio si niega.

xxix

[507] I viaggi di Pittagora per lo mondo, altrimenti incredibili da noi sopra dimostri, si fanno veri per ciò: che poi si truovarono uniformi per lo mondo molti dogmi insegnati da esso Pittagora.

xxx

[508] Che Servio Tullio ordinò in Roma il censo. — Ma quello che per lo dominio bonitario dovevano i plebei pagare a’ padri, non giá quello che fu il fondamento della libertá popolare.

xxxi

[509] Che Bruto avesse ordinata la libertá popolare. — Ma egli riordinò la libertá de’ signori e, co’ due consoli annali, abbozzò la popolare, come apertamente l’avverte Livio.

xxxii

[510] Che in Roma, sul cominciare la libertá, fossero state turbolenze agrarie alla fatta di quelle mosse da’ Gracchi. — Ma furono agrarie della seconda spezie, cioè del dominio ottimo de’ campi da comunicarsi per gli padri a’ plebei; come altre della prima spezie, cioè del dominio bonitario, dovettero muoversi innanzi sotto il regno di Servio Tullio, che rassettolle col censo.

xxxiii

[511] Che vi si menarono colonie della spezie dell’ultime a noi conosciute. — Ma furono colonie della seconda spezie, in conseguenza

278 ―
del dominio bonitario sotto il censo di Servio Tullio. Come le prime di Romolo furono le propie colonie di coloni, che coltivavano i campi per gli signori.

xxxiv

[512] Che la plebe romana, per odio del diritto incerto e nascosto e mano regia de’ padri, volle la legge delleXII Tavole. — Egli è vero, in quanto, per le loro conseguenze, essi non erano sicuri, col dominio bonitario, de’ campi da’ padri assegnati loro.

xxxv

[513] Che la legge delleXII Tavole fosse venuta da fuori in Roma. — Perché i romani, usciti fuori, truovarono costumi uniformi ai comandati loro da cotal legge.

xxxvi

[514] Che ’l diritto romano fu un ammassamento di diritto spartano ed ateniese. — Perché i romani usciti fuori ne’ tempi del loro governo aristocratico, avvertirono il loro diritto lo stesso con quello di Sparta. Ne’ tempi del loro governo popolare appresso, l’avvertirono simile a quel d’Atene.

xxxvii

[515] Che da’ re cacciati fino alle guerre cartaginesi fu il secolo della romana virtú. — Cioè della virtú eroica, onde contesero i padri l’eroismo e le di lui dipendenze alla plebe, che l’affettava.

xxxviii

[516] Che ’l diritto naturale delle genti, col quale i romani sul principio giustificavano le guerre, usavano le vittorie e regolavano le conquiste, l’avessero essi da altre nazioni ricevuto. —

279 ―
Ma egli nacque in casa a’ romani uniforme con quello delle altre nazioni, delle quali i romani vennero in cognizione con l’occasione di esse guerre.

xxxix

[517] Che ’l diritto ottimo fusse solo al mondo de’ cittadini romani. — Ma egli nacque uniforme in ogni cittá libera, e divenne solo de’ cittadini romani perocché il tolsero con le vittorie a tutto il mondo da essi soggiogato.

xl

[518] Che ’l diritto naturale tra’ gentili avesse da principio proceduto sulla forza del vero, senza distinguervi un popolo assistito dal vero Dio, né Seldeno da’ violenti di Obbes, né Grozio da’ suoi semplicioni, né Pufendorfio da’ suoi gittati in questo mondo senza cura ed aiuto di Dio. — Ma si fa vero, che egli procedé sul vero della provvedenza.

281 ―

II
Tavola delle discoverte generali.

[519] Le quali, oltre le particolari, che qui si fanno ne’ particolari loro luoghi, come per un corpo il sangue, cosí per quest’opera tutte diffuse e sparse, si comprendono in questa somma.

i

[520] Un’istoria ideale eterna descritta sull’idea della provvedenza, sopra la quale corrono in tempo tutte le storie particolari delle nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.

ii

[521] I princípi eterni della natura degli Stati e dell’eterne propietá delle cose civili, le quali se il leggitore, combinandole, unirá tutte insieme, ritruoverá aver essolui descritte le leggi naturali di una repubblica eterna, che varia in tempo per vari luoghi.

iii

[522] La natura e le propietá originali delle monarchie e delle repubbliche libere, scoverte dentro loro, come matrici, nelle repubbliche eroiche e nelle monarchie de’ primi padri di famiglia nello stato di natura, che finora sono state nascoste dentro le greche favole. Che era la sapienza degli antichi da discovrirvi.

282 ―

iv

[523] Quindi messa in una nuova comparsa tutta la storia romana antica, nell’indagamento delle cagioni, ritruovate tra l’ombre e tra le favole della da noi sconosciutissima antichitá, sopra le quali reggano i fatti che, quanto sono certi, tanto altrimente, come ora giacciono, sono impossibili a credersi, come gli abbiamo sopra dimostro.

v

[524] La certa origine di tutta la storia universale profana e la di lei perpetuitá dalla sagra per la favolosa greca nella certa romana, che incomincia dalla seconda guerra cartaginese. E si legge con tre lingue, ritruovate corrispondenti a tre etá, per le quali, in quest’ordine posto dalla provvedenza, ella appo tutte le nazioni gentili comincia, corre e finisce. La quale scienza di lingue bisognava per parlare del diritto naturale delle genti con propietá.

vi

[525] Che sopra tre diritti, tutti natii delle genti del Lazio, uno delle clientele di Romolo, altro del censo di Servio Tullio, il terzo del diritto ottimo privato de’ campi comunicato a’ plebei con la legge delleXII Tavole, riserbandosi i padri nell’undecima il diritto ottimo pubblico degli auspíci, regge come in sistema tutto il governo, diritto, istoria e giurisprudenza romana antica; e dentro esse leggi, che unicamente formano e fermano gli abiti virtuosi de’ popoli, si ritruovano le cagioni della religione de’ padri, della magnanimitá della plebe, della virtú del popolo nel fare le guerre, della giustizia del senato nel dare le leggi di pace alle vinte nazioni e, per tutto ciò, le cagioni di tutta la romana grandezza. Onde, con quegli stessi costumi natii, co’ quali i Bruti discacciarono dalle cervici di

283 ―
Roma i tiranni; gli Orazi, gli Scevoli e infino le donzelle Clelie, con le meraviglie della loro virtú, sbigottirono i Porseni con tutta la toscana potenza; e ’l romano vinse nel Lazio popoli, quanto che esso, feroci, perché avevano gli stessi costumi — che fu molto piú difficile, come avvertono i politici sulle cose romane: — con gli stessi costumi eroici natii, fissi poi nelle Tavole, gli eroi romani appresso soggiogarono l’Italia, quindi vinsero l’Affrica e sulle rovine di Cartagine gittarono le fondamenta all’imperio del mondo.

vii

[526] Una propia filosofia dell’umanitá, che è una continova meditazione sopra quanto vi volle onde i violenti di Obbes, gli scempioni di Grozio, i destituti di Pufendorfio, fin dal tempo che Giove atterrò i giganti, tratto tratto si conducessero a’ tempi che in Grecia sursero i sette sappienti, il cui principe Solone insegnasse agli ateniesi il celebre motto «Nosce te ipsum», da’ quali incominciarono i greci a compiersi nell’umanitá per massime. Alla quale, per certi sensi umani, erano stati per tutto il tempo innanzi di mille e cinquecento anni dalla sola provvedenza condotti, incominciando essi a formare l’umana generazione prima con la religione d’una divinitá provvedente, quindi con la certezza de’ figliuoli, e finalmente con le sepolture degli antenati. Che sono i tre princípi, che noi sul cominciare ponemmo, dell’universo civile.

287 ―

I
Dedica al Cardinal Lorenzo Corsini

Principe eminentissimo,

[527] I princípi del diritto natural delle genti, del qual finora han ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, ma divisi in parte dalla nostra religione, ed ora la prima volta da italiano ingegno trattati con la scoverta di una nuova Scienza dintorno alla natura delle nazioni, ed in grado dell’Italia scritti in nostra volgar favella, e con massime tutte conformi alla sana dottrina che si custodisce dalla Chiesa romana, per tanti e sí propi riguardi vengono da se stessi a tributare il loro ossequio al nome immortale dell’Eminenza Vostra, gran pregio ed ornamento dell’ordine amplissimo della universal repubblica cristiana. Al quale menovvi, eminentissimo principe, la provvedenza per mano della vostra fortuna e virtú, faccendovi quella nascere in Italia dalla luminosissima cittá di Firenze, la quale fu sempremai fecondo seminario di ecclesiastiche degnitá, dove Vostra Eminenza trasse l’antica origine da nobilissimo ceppo, onusto di sagre porpore e mitre, di sommi magistrati in casa, e fuori di alti comandi d’armi e d’ambascerie a’ primi re e repubbliche e dell’Italia e di lá da’ monti e ’l mare, e insino al cielo carco di gloria de’ vostri santi Corsini. E tanti e sí fatti onori, in una continovata splendidissima comparsa spiegati, derivaron col nobil sangue nelle vostre vene quel generoso onde, ricco di tai favori della fortuna, fate piú magnanimo uso

288 ―
della virtú: ché, nel consigliare o amministrare gli alti affari della Santa Sede, con vostra immortal gloria, la nobiltá v’ispira, la degnitá de’ consigli e lo splendore della nascita vi sostiene la fortezza dell’esecuzioni. L’innata libertá della nazion vostra fiorentina, ingentilita dalla sapienza della cittá, e per leggiadra lingua e per tutte le belle arti Atene d’Italia, fu il modello sopra il quale, per disegno della vostra generosa virtú, formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá che l’ha saputo conciliare la riverenza delle nazioni, la stima de’ sovrani, il credito de’ pontefici massimi e la venerazione di tutto il mondo de’ letterati. Perciocché, qual saggio principe della Chiesa, bene intendendo essere arcano di principato di sapienza cristiana, quale egli è certamente l’ecclesiastico, di favorire gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria, fermezza e perennitá, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valore di lettere, che riceve con umanitá singolare, guarentisce con incredibil fortezza e promuove con regal generositá. Onde cotanto rara vostra grandezza d’animo avvalora la mia rispettosa riverenza (che altrimenti per lo mio poco merito rattener gli arebbe dovuti) a umilissimamente presentarglivi, siccome, riverentemente inchinandola, gli vi presento e, ’nsiememente, mi dichiaro e rassegno

Di Vostra Eminenza

Napoli, 8 maggio 1725

riverentissimo servitore

Giambattista Vico.

287 ―

I
Dedica al Cardinal Lorenzo Corsini

Principe eminentissimo,

[527] I princípi del diritto natural delle genti, del qual finora han ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, ma divisi in parte dalla nostra religione, ed ora la prima volta da italiano ingegno trattati con la scoverta di una nuova Scienza dintorno alla natura delle nazioni, ed in grado dell’Italia scritti in nostra volgar favella, e con massime tutte conformi alla sana dottrina che si custodisce dalla Chiesa romana, per tanti e sí propi riguardi vengono da se stessi a tributare il loro ossequio al nome immortale dell’Eminenza Vostra, gran pregio ed ornamento dell’ordine amplissimo della universal repubblica cristiana. Al quale menovvi, eminentissimo principe, la provvedenza per mano della vostra fortuna e virtú, faccendovi quella nascere in Italia dalla luminosissima cittá di Firenze, la quale fu sempremai fecondo seminario di ecclesiastiche degnitá, dove Vostra Eminenza trasse l’antica origine da nobilissimo ceppo, onusto di sagre porpore e mitre, di sommi magistrati in casa, e fuori di alti comandi d’armi e d’ambascerie a’ primi re e repubbliche e dell’Italia e di lá da’ monti e ’l mare, e insino al cielo carco di gloria de’ vostri santi Corsini. E tanti e sí fatti onori, in una continovata splendidissima comparsa spiegati, derivaron col nobil sangue nelle vostre vene quel generoso onde, ricco di tai favori della fortuna, fate piú magnanimo uso

288 ―
della virtú: ché, nel consigliare o amministrare gli alti affari della Santa Sede, con vostra immortal gloria, la nobiltá v’ispira, la degnitá de’ consigli e lo splendore della nascita vi sostiene la fortezza dell’esecuzioni. L’innata libertá della nazion vostra fiorentina, ingentilita dalla sapienza della cittá, e per leggiadra lingua e per tutte le belle arti Atene d’Italia, fu il modello sopra il quale, per disegno della vostra generosa virtú, formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá che l’ha saputo conciliare la riverenza delle nazioni, la stima de’ sovrani, il credito de’ pontefici massimi e la venerazione di tutto il mondo de’ letterati. Perciocché, qual saggio principe della Chiesa, bene intendendo essere arcano di principato di sapienza cristiana, quale egli è certamente l’ecclesiastico, di favorire gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria, fermezza e perennitá, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valore di lettere, che riceve con umanitá singolare, guarentisce con incredibil fortezza e promuove con regal generositá. Onde cotanto rara vostra grandezza d’animo avvalora la mia rispettosa riverenza (che altrimenti per lo mio poco merito rattener gli arebbe dovuti) a umilissimamente presentarglivi, siccome, riverentemente inchinandola, gli vi presento e, ’nsiememente, mi dichiaro e rassegno

Di Vostra Eminenza

Napoli, 8 maggio 1725

riverentissimo servitore

Giambattista Vico.